Tiziana Catarci, prima candidata donna a rettore dell'università La Sapienza: “Il mio ateneo open-data e vicino alle nuove professionalità”

da | Set 10, 2014 | Interviste/Video

di Laura Eduati

 

Tiziana Catarci è la prima donna candidata rettore dell'università La Sapienza in oltre 700 anni di storia.

Laureata in Ingegneria elettronica, insegna sistemi di elaborazione delle informazioni presso la nuova facoltà di Ingegneria dell’Informazione, Informatica e Statistica. “Le donne dovrebbero studiare le materie considerate appannaggio dei maschi”, dice, “e se ancora le figure femminili ai vertici sono poche non è certo colpa della mancata autostima delle donne: vi sono ostacoli oggettivi da rimuovere”.

Tra i punti decisivi del suo programma per diventare la guida del più grande ateneo italiano, Catarci cita gli open-data: “L'università deve arrivare a pubblicare tutti i dati sulle ricerche, i finanziamenti e le attività amministrative per prevenire la cattiva gestione”, un riferimento nemmeno troppo velato alle accuse di baronia e familismo piovute addosso all'attuale Magnifico, Luigi Frati. E poi il ruolo dell'istruzione universitaria come “centro culturale per risollevare le sorti del Paese”: “I corsi devono avvicinarsi al mondo del lavoro anche attraverso finanziamenti privati”. Presidente del centro InfoSapienza e promotrice di Sapienza Futura, è stata prorettore per le Infrastrutture e le Tecnologie. Il voto avverrà il 23 e il 24 settembre.

La sua candidatura viene interpretata come la rottura del classico “soffitto di cristallo”, ma lei su Twitter ha rilanciato un articolo secondo il quale alle donne non manca l'autostima, mancano invece le pari opportunità. Nel dibattito sulla conquista del potere da parte delle donne, uno degli argomenti in voga è che dobbiamo coltivare maggiore stima nelle nostre capacità per ottenere un posto al sole. A me pare una nuova colpevolizzazione delle donne, che spesso sono ostacolate non dall'atteggiamento mentale ma dalle condizioni concrete e oggettive come le politiche inesistenti sulla maternità e le poche misure di integrazione.

A lei è capitato di trovare molti ostacoli per il fatto di avere scelto una materia classicamente maschile come l'ingegneria elettronica e l'informatica? Fortunatamente sono stata incoraggiata dai miei genitori e questo mi ha permesso di coltivare la mia innata passione per la matematica e per l'ingegneria. Purtroppo ancora vedo messaggi culturali rivolti alle bambine affinché badino a non sporcarsi il vestito mentre ai maschi viene concesso quasi tutto. Questo si traduce in un scarso numero di studentesse nelle facoltà di informatica, è un problema non soltanto italiano che si traduce nella perdita di svariati punti percentuali di Pil.

Uno dei suoi progetti riguarda la pubblicazione di open-data anche alla Sapienza. Cosa potrebbero comunicarci? Sarebbe utile pubblicare sul portale dell'università dati aperti di tipo scientifico e cioè risultati della ricerca, dati sugli esperimenti e la ripartizione dei fondi ai laboratori cosicché tutti, ma in particolar modo gli studenti, possano valutare meglio la qualità dell'ateneo e decidere quale percorso di studi intraprendere. Ma gli open-data riguardano anche l'amministrazione e perciò i dati sul funzionamento degli uffici, il costo delle sedi, insomma tutto quello che riguarda la gestione. Questo significherebbe una garanzia di trasparenza, perché se tutto viene pubblicato allora diventa più difficile corrompere e farsi corrompere oppure attuare pratiche scorrette. E automaticamente l'università funziona meglio.

Cosa intende quando si augura che l'università si avvicini al mondo del lavoro? Dobbiamo affrontare il terribile dato sulla disoccupazione giovanile – 43% – e il fatto che molti laureati non riescano a trovare un lavoro all'altezza della loro formazione. Allo stesso tempo l'Italia, con il 22% di laureati, rimane molto al di sotto dell'Unione europea: dovremmo arrivare almeno al 40%. Io credo dovremo rovesciare questa tendenza e creare nuovi corsi di laurea che siano attenti alle nuove professionalità legate al web ma anche alla ecosostenibilità, al food, alle smart city. C'è bisogno di integrare il sapere tradizionale, penso all'architettura e all'urbanistica, con le esigenze del mondo contemporaneo. Questo riguarda anche le facoltà umanistiche: il Mit ha appena inaugurato dei corsi in digital humanities dove gli studenti, destinati comunque a studiare materie di tipo tecnico, nei primi due anni devono prepararsi in logica e filosofia.

Non ha il timore che le discipline meno spendibili professionalmente saranno gradualmente abbandonate? Personalmente credo che le università debbano aprirsi alla società e tornare a fare cultura. L'università è un laboratorio di idee che deve valorizzare in primo luogo la formazione e dobbiamo assolutamente invertire le politiche che negli ultimi anni hanno saputo soltanto tagliare i fondi. Quando parlo di nuovi corsi più vicini alle esigenze occupazionali non intendo dire che i corsi tradizionali devono sparire. Le due cose possono convivere.

Tutto questo aprendo anche ai finanziamenti privati? Certamente. In questo modo l'università crea contatti con l'esterno e maggiori opportunità.Per esempio a La Sapienza un gruppo di ricerca ha vinto un 'grant” di Google per 1 milione di euro, il bando era internazionale. Questa è una buonissima notizia, ma occorre andarsi a cercare i fondi e vincerli. In Italia non è semplice perché l'industria tradizionale non è molto innovativa, lo sono molto di più le start-up nonostante le piccole dimensioni. Ma il finanziamento può provenire anche attraverso gli enti locali. In questo senso occorre applicare in toto la legge Ruberti sull'autonomia delle università, che invece spesso vengono sommerse dalla burocrazia come fossero una qualsiasi pubblica amministrazione.

 

L'Huffington PostPubblicato: 13/07/2014