«Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento.
Io assumo la responsabilità di quanto dico;
i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto.
E la giustizia giudichi.»
Tina Merlin[1]
Un lampo accecante.
Un boato.
Il buio.
Il vento.
Una potenza d’aria fortissima, mai sentita prima.
Un vento misto ad acqua.
Poi l’acqua.
Ma nel momento in cui arriva l’acqua è già finita. Il mondo delle persone che vivevano lì è finito in pochi minuti. E di quel mondo non è rimasto nulla.
Solo fango.
Molti cadaveri. Non tutti.
«Non c’è più niente, non c’è più nessuno». Parole dette a fatica, piangendo, da una donna, una giornalista, al telefono con la sua redazione.[2] Parole impronunciabili, perché è impronunciabile quello che è successo, quello che lei ha visto.
Quella donna è Tina Merlin, giornalista de l’Unità, l’unica che per anni aveva dedicato la propria scrittura a denunciare ciò che stava accadendo e ciò che sarebbe accaduto nella valle del Vajont. E non per colpa della natura malvagia, come tutti dissero il giorno dopo la fine di quel mondo. No. La natura non è malvagia. Sono gli uomini ad esserlo. Un gruppo di uomini – esseri umani di sesso maschile – che avevano scelto come proprio dio il denaro, il profitto. Anche di fronte alla vita di duemila esseri umani.
«La storia del “grande Vajont”, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».[3]
Non siamo qui per raccontare tutte le vicende che causarono quell’olocausto. Iniziarono molto prima delle 22:39 del 9 ottobre 1963; iniziarono nel 1905, a Venezia, quando Giuseppe Volpi conte di Misurata – futuro ministro delle finanze del governo Mussolini – fondò la SADE (Società Adriatica di Elettricità), e poi nel 1929 quando fu presentato il primo progetto di quello che diventerà “il grande Vajont”.
Oggi siamo qui per parlare di lei, di Tina Merlin, e del processo che subì nel 1960 – quindi tre anni prima di quell’olocausto –, accusata, da coloro che si stavano candidando consapevolmente al ruolo di assassini stragisti, di scrivere notizie false in grado di turbare l’ordine pubblico.
Il processo si svolse il 10 e il 30 novembre 1960 presso il Tribunale di Milano.[4] Pizzigoni Orazio, allora direttore del quotidiano l’Unità, e Merlin Clementina, giornalista firmataria dell’articolo, erano accusati di aver diffuso «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico».[5] Quale ordine pubblico? Quello della SADE evidentemente, quell’ordine che la SADE voleva mantenere per garantirsi il profitto preventivato costruendo la più alta diga del mondo. «Il potere era lei, perché il vero potere aveva abdicato».[6]
L’articolo in questione era stato pubblicato su l’Unità il 5 maggio 1959 con il titolo «La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono». In esso Tina Merlin spiegava che a Erto i capifamiglia – «uomini e donne» – avevano deciso di assumere la veste giuridica di consorzio allo scopo di difendere i diritti degli abitanti «di fronte alle prepotenze e ai soprusi che la SADE va da anni compiendo nella zona»; a quella riunione erano intervenute non solo le famiglie direttamente interessate dagli espropri ma anche altre persone, «che nell’egoismo della società elettrica e nella inerzia del Governo intravedono un pericolo grave per la stessa esistenza del paese a ridosso del quale si sta costruendo un bacino artificiale di 150 milioni di metri cubi d’acqua, che un domani, erodendo il terreno di natura franosa, potrebbero far sprofondare le case nel lago. […] Inoltre un fatto grave e contrario a tutte le leggi, che ha avuto inizio da qualche mese e che tuttora perdura, ha portato all’esasperazione gli abitanti della valle. Essi si vedono continuamente invadere ed espropriare i propri campi dalle società che hanno in appalto la costruzione della strada di circonvallazione per conto della SADE. Nessun decreto di espropriazione o trattative per la cessione dei beni sono intervenuti fra la SADE ed i proprietari. La società elettrica infrange tutte le leggi dello Stato, e i contadini hanno sempre dovuto sottostare ai soprusi della SADE».[7]
“Prepotenze”, “soprusi”, “egoismo” della SADE e “inerzia” del governo dello Stato, che non sembra avere alcun interesse per ciò che sta accadendo in quella valle del Friuli. Non usa parole leggere Tina Marlin, non usa perifrasi, dice semplicemente le cose come stanno. D’altra parte questo è giornalismo.
«Legalità e giustizia sono le parole che pronunziano con fermezza i montanari della Valcellina. Ed è nel rispetto della legalità e della giustizia, purché tale rispetto sia reciproco, che essi imposteranno tutte le loro future azioni per la difesa della loro terra».[8]
“Legalità e giustizia” i cittadini e le cittadine del Vajont non ne hanno ricevuta né prima né durante né dopo. Né dalla SADE né dallo Stato italiano. L’unica cosa che è stata restituita loro da qualche anno è la memoria. Prima non c’era neanche quella. Era più comodo che non ci fosse. Ma Marco Paolini è riuscito a farla risorgere dal fango.
Interrogata dal presidente del Tribunale, in quel novembre 1960, Tina Merlin rispose che aveva scritto l’articolo «dopo essere stata presente ad un raduno dei valleggianti, durante il quale è stato costituito il Consorzio per la salvaguardia della valle esterna e durante tale riunione un po’ tutti denunciarono e parlarono del pericolo derivante dalla costruzione del bacino artificiale».[9]
A testimoniare – giurando di dire la verità «davanti a Dio e agli uomini», come imponeva l’allora codice – intervenne Celeste Martinelli, abitante di Erto, Comune posizionato sulla riva destra della valle. Testimoniò che «la costruzione del bacino costituisce ed è considerata dagli abitanti un serio pericolo per il paese, in quanto la zona è costituita da terreno franoso».[10] Il problema, quindi, non era la diga in sé – che dopo sessant’anni è ancora lì, dritta, sopravvissuta alla strage da essa stessa provocata, «resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica»[11] -, ma il luogo dove quella diga era stata costruita, perché quell’immenso bacino artificiale di acqua era messo nel bel mezzo di una valle circondata da montagne franose.
“Toc”, nome del monte da cui si staccheranno circa duecento milioni di metri cubi di roccia, significa in dialetto “pezzo”. “Vajont” significa “va giù”. L’importanza delle parole.
Intervenne un altro testimone, Pietro Della Cutta, abitante di Erto: «In Erto c’era un allarme generale per la costruzione del bacino che costituiva un grave pericolo per il paese il quale è sorto su una valle formata da terreno franato, per cui è sorto un Consorzio per la salvaguardia del paese e nel quale io fui nominato vice-presidente».[12]
Osvaldo Carrara, abitante di Erto, testimoniò: «Sono stato sfrattato da casa mia assieme alla mia famiglia perché doveva essere costruita la strada per la diga. Non ho avuto nessun preavviso legale di sfratto. Fui alloggiato in una stalla, per nove mesi, durante tale periodo si sono ammalati quattro miei figliuoli».[13]
I testimoni raccontarono delle famiglie che erano state espropriate delle loro case per la costruzione del bacino, raccontarono delle frane che si erano già verificate, delle fessurazioni apertesi sul monte Toc, delle scosse di terremoto che terrorizzavano il paese e lesionavano le case. Mostrarono le fotografie di quella distruzione. Gli abitanti di Erto e Casso avevano ragione di temere che le loro case sarebbero sprofondate trascinate dalla frana delle montagne prospicienti quel bacino artificiale costruito per produrre energia elettrica e profitti.
Il Tribunale non ebbe bisogno di altro. D’altronde qualche giorno prima, il 4 novembre, c’era stata un’anteprima del disastro: una prima frana crollò nel bacino in via di riempimento causando un’ondata. Su scala minore, era accaduta la stessa cosa il 22 marzo 1959 presso la diga di Pontesei, ove era morto l’operaio Arcangelo Tiziani.
Il 30 novembre 1960, all’udienza di discussione, il procuratore stesso chiese l’assoluzione degli imputati Merlin e Pizzigoni.
E la sentenza del Tribunale – in nome del popolo italiano – fu una sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Perché nell’articolo di Tina Merlin «non si ritrovano notizie né false, né esagerate né tendenziose. […] La Merlin, autrice dell’articolo, legittimamente usando del diritti [sic] di cronaca, si è limitata a rendere note le notizie e le impressioni da lei raccolte nel corso della sua inchiesta, e a riportare uno stato d’animo di preoccupazione e di ansia che era largamente diffusa tra gli abitanti di Erto e che trovava la sua giustificazione nelle circostanze come acclarate in causa».[14]
«Lo avevamo detto, ma non ci hanno ascoltati» dirà Angelo Salvini, giudice firmatario di quella sentenza, il 9 ottobre 1963, quando alla televisione vedrà la distruzione di un’intera vallata.[15]
“In nome del popolo italiano”. Tutte le sentenze della Repubblica sono pronunciate “in nome del popolo italiano”. Eppure quel popolo italiano spesso non si ritrova nelle sentenze, o addirittura non è rispettato dalle sentenze.
In quella del 30 novembre 1960 sì. Il popolo del Vajont si ritrovava in quella sentenza, trovava rispetto in quella sentenza, si sentiva quel popolo italiano in nome del quale era stata pronunciata.
Perché con quella sentenza lo Stato dimostrava di sapere cosa stava accadendo e cosa sarebbe accaduto, dimostrava di conoscere i danni causati da una società elettrica privata e il pericolo imminente cui quella società esponeva la popolazione. Lo Stato sapeva. Eppure nulla fece.
Lo Stato continuò ad autorizzare, a non domandare, a credere alle bugie che la SADE gli proponeva. Lo Stato acquistò l’impianto del Vajont con la legge di nazionalizzazione del dicembre 1962[16], diventando così non più complice ma direttamente responsabile dell’«olocausto» concretizzatosi il 9 ottobre 1963. Perché la natura non è malvagia, ma è più forte di quello che gli esseri umani immaginano. Perché l’onda provocata dalla caduta della frana – a forma di “M”, come il geologo Leopold Müller che per primo la individuò – nel bacino artificiale costruito dalla SADE non fece sprofondare i paesi di Erto e Casso come gli abitanti temevano; li toccò, sì, fece arrivare enormi massi di pietra sui tetti, sì, uccise 158 persone in quei paesi, sì, ma andò oltre. Oltre la diga. Si riversò a Longarone, cancellandola dalla faccia della Terra.
«Scrivo da un paese che non esiste più» fu il rabbrividente incipit del giovane giornalista Giampaolo Pansa.[17]
Nulla c’era più. A parte il fango e i cadaveri.
E le colpe.
Le colpe degli uomini, non della natura.
Le colpe dello Stato, oltre che della SADE.
Tanto ci sarebbe da raccontare su quelle colpe.
Bisognerebbe raccontare che la SADE ottenne la prima autorizzazione alla costruzione della diga con un atto illegale, perché il 15 ottobre 1943 – in una Roma senza Governo e occupata dai tedeschi – mancava il numero legale nel Consiglio superiore dei lavori pubblici. Bisognerebbe raccontare che la SADE modificò più volte il progetto e iniziò le prove d’invaso prima di ottenere le relative autorizzazioni, consapevole che tanto quelle autorizzazioni sarebbero poi arrivate. Bisognerebbe raccontare che l’unico funzionario del Genio civile di Belluno che si permise di contestare il lavoro della SADE fu prontamente trasferito. Bisognerebbe raccontare di come la SADE occultò le fessurazioni che si aprivano sul monte Toc, così come occultò i risultati della simulazione in scala svolta presso il Centro modelli idraulici di Nove. Bisognerebbe raccontare che l’ENEL-SADE continuò a invasare e svasare acqua dal bacino nella perfetta consapevolezza che era proprio quell’invasare e svasare che faceva franare la montagna, perché fermarsi, ammettere di aver sbagliato, rinunciare al profitto era inammissibile: avevano un’ottica «“tecnico-produttiva”. Ed è con quest’ultima ottica che il mondo d’oggi si confronta».[18] Bisognerebbe raccontare che gli ingegneri progettisti del “grande Vajont”, resisi conto che «le cose sono probabilmente più grandi di noi»[19], finirono per abdicare alle sicurezze scientifiche augurandosi «che Iddio ce la mandi buona»[20]. Bisognerebbe raccontare che Giovanni Leone, in qualità di presidente del Consiglio, sulla distesa di fango di Longarone dichiarò che giustizia sarebbe stata fatta, e poi tre anni dopo, in qualità di avvocato, presentò per la SADE una memoria difensiva in cui sosteneva l’imprevedibilità dell’evento. Bisognerebbe raccontare che tra quei duemila morti 487 erano bambini e bambine, e che oggi i loro nomi sono scritti su fazzoletti appesi lungo la discesa che porta alla diga.
Bisognerebbe però raccontare anche l’altra faccia della storia. Bisognerebbe raccontare la fermezza con cui il figlio dell’ideatore di quel progetto scellerato, il geologo Edoardo Semenza, tenne testa a suo padre Carlo diagnosticando che il monte Toc sarebbe franato nel bacino artificiale, nonostante lui gli chiedesse di rivedere la sua relazione, perché si sa che i giovani tendono ad essere catastrofici mentre è la barba bianca a meritarsi rispetto. Bisognerebbe raccontare il coraggio di Lorenzo Rizzato, giovane tecnico dell’università di Padova, che rese pubblica la documentazione della simulazione svolta a Nove dal professor Ghetti per conto della SADE e che per questo fu arrestato; bisognerebbe raccontare che, una volta assolto, tornò per poco tempo all’università, preferì dedicarsi alla passione del teatro, ed ebbe tra i suoi allievi un certo Marco Paolini.[21] Bisognerebbe raccontare del giudice Mario Fabbri, che nella sua sentenza istruttoria consegnò una minuziosa descrizione dei fatti che fu fondamentale per il processo penale e per la storia italiana, la descrizione non di una catastrofe naturale bensì di una strage prevedibile e prevista.[22] Bisognerebbe, infatti, ricordare che l’Unesco ha qualificato quello del Vajont come il primo tra i cinque maggiori disastri evitabili nel mondo dopo la seconda guerra mondiale: «Il disastro del bacino del Vajont è un classico esempio delle conseguenze del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che tentavano di risolvere».[23] Bisognerebbe raccontare anche il curioso destino che ha consentito di conservare i fascicoli del processo del Vajont presso il Tribunale dell’Aquila, dove la Corte di Cassazione lo aveva trasferito nel 1968 per legitima suspicione, visto che sarebbe incredibile se non fosse vero il destino che li ha salvati dal terremoto.[24]
Bisognerebbe raccontare tutto questo, ma lascio che lo racconti qualcun altro.
Io voglio rileggere ancora Tina Merlin, che all’indomani di quel 9 ottobre scrisse qualcosa che dovremmo tenere bene a mente:
«Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa».[25]
[1] Tina Merlin, L’Unità fu processata per aver denunciato il pericolo, «l’Unità», 11 ottobre 1963.
[2] Piero Ruzzante, Antonio Martini, L’acqua non ha memoria. Storia salvata del disastro del Vajont, Milano, UTET, 2023, p. 162.
[3] Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Sommacampagna (VR), Cierre, 2001, p. 145.
[4] Gli atti e la sentenza del processo fatto parte dei documenti a disposizione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont, istituita con la Legge 22 maggio 1964, n. 370.
[5] Dal capo d’imputazione riportato nella sentenza emessa dal Tribunale di Milano il 30 novembre 1960, n. 1974.
[6] Tina Merlin, Sulla pelle viva, cit. p. 22.
[7] Dal processo verbale di dibattimento, p. 7-9.
[8] Dal processo verbale di dibattimento, p. 11.
[9] Dal processo verbale di dibattimento, p. 2.
[10] Dal processo verbale di dibattimento, p. 3.
[11] Tina Merlin, Sulla pelle viva, cit., p. 21.
[12] Dal processo verbale di dibattimento, p. 3-4.
[13] Dal processo verbale di dibattimento, p. 4.
[14] Sentenza Tribunale di Milano del 30 novembre 1960, n. 1974, p.3-5.
[15] Parole riportate da suo figlio, Guido Salvini, anch’egli magistrato, nell’articolo di Andrea Gianni, Vajont, il processo milanese. Quella sentenza premonitrice: “Non hanno ascoltato l’allarme”, «Il Giorno», 14/10/2023, https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/vajont-il-processo-milanese-quella-sentenza-premonitrice-non-hanno-ascoltato-lallarme-16fef387
[16] Legge 6 dicembre 1962, n. 1643. Istituzione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica e trasferimento ad esso delle imprese esercenti le industrie elettriche.
[17] Giampaolo Pansa, Scrivo da un paese che non esiste più. È un anfiteatro brullo: qui c’era Longarone, «La Stampa», 11 ottobre 1963, https://corrierealpi.gelocal.it/belluno/cronaca/2019/03/10/news/scrivo-da-un-paese-che-non-esiste-piu-e-un-anfiteatro-brullo-qui-c-era-longarone-1.30084675
[18] Tina Merlin, Sulla pelle viva, cit. p. 139.
[19] Lettera dell’ing. Carlo Semenza all’ing. Vincenzo Ferniani, 20/04/1960.
[20] Lettera dell’ing. Alberico Biadene all’ing. Mario Pancini, 9/10/1963.
[21] Piero Ruzzante, Antonio Martini, L’acqua non ha memoria, cit., p. 120-140.
[22] Maurizio Reberschak, Mario Fabbri, il giudice del Vajont, in Maurizio Reberschak, Silvia Miscellaneo, Enrico Bacchetti (a cura di), Vajont, la prima sentenza. L’istruttoria del giudice Mario Fabbri, Sommacampagna, Cierre, 2023, p. 9-26.
[23] International Year of Planet Earth, 2008. L’UNESCO ha inserito l’archivio processuale del disastro del Vajont nel Registro Internazionale Memory of the World.
[24] Piero Ruzzante, Antonio Martini, L’acqua non ha memoria, cit., p. 11-19.
[25] Tina Merlin, L’Unità fu processata per aver denunciato il pericolo, «l’Unità», 11 ottobre 1963.
Bibliografia
Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Sommacampagna (VR), Cierre, 2001
Marco Paolini, Gabriele Vacis, Vajont, 9 ottobre ’63. Orazione civile, Torino-Roma, Einaudi-Rai Trade, 2008
Maurizio Reberschak, Silvia Miscellaneo, Enrico Bacchetti (a cura di), Vajont, la prima sentenza. L’istruttoria del giudice Mario Fabbri, Sommacampagna, Cierre, 2023
Piero Ruzzante, Antonio Martini, L’acqua non ha memoria. Storia salvata del disastro del Vajont, Milano, UTET, 2023
Senato della Repubblica Archivio storico, Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont. Inventario e documenti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003