di Bia Sarasini
Libertarie o bacchettone? È il dilemma che perseguita le femministe, fin dall’origine. Repressive del sesso e dei suoi godimenti, perché odiatrici degli uomini e dei loro modi di praticarli, il sesso e il piacere? O talmente libere da essere svergognate, insomma mignotte, sempre per l’opinione maschile? È un paradosso che accompagna il femminismo fin dai primi passi, anche quando non si chiamava ancora così, dai tempi di quelle signore statunitensi che nella seconda metà dell’Ottocento aboliscono busto, corpetti, sottogonne, introducono i pantaloni, eppure sono considerate donne prive di qualunque attrattiva. Di fatto non si adeguano alla femminilità, intesa come norma sociale che include mentalità, posture del corpo, abiti e soprattutto sessualità. Un fenomeno ripetuto nel tempo, in contesti diversi, fino agli anni settanta, l’epoca in cui furono aboliti i reggiseni, e si portarono bluse e gonne lunghe e trasparenti. Insomma corpo libero, senza inibizioni, esattamente come la sessualità. Sessualità autogestita, fuori dalle norme. Eppure quelle femministe sono entrate nella narrazione corrente come donne inguardabili. Con i baffi o giù di lì. Per fortuna le foto rendono giustizia, e restituiscono le ragazze, le donne giovani e belle che erano nei cortei. Mentre non sparisce il ricordo di quel sordo mormorio maschile ai lati dei cortei: puttane e ben peggio.
Si potrebbe continuare a lungo, mi fermo qui. Perché il punto è che non si può parlare di pornografia e femminismo, senza conoscere il contesto.
Michi Staderini, femminista romana, fondatrice del Centro Culturale Virginia Woolf scomparsa troppo presto nel 1994, lo scrive all’inizio del suo saggio pubblicato postumo a cura di Lia Migale nel 1998, Pornografie: «Gli anni in cui si sviluppa la pornografia sono gli stessi anni in cui nasce il femminismo anni ’60. In America sono gli anni della rivolta degli studenti di Berkeley contro la guerra del Vietnam, sono gli anni degli hippies e della cosiddetta “rivoluzione sessuale”. Fra i numerosi cambiamenti culturali e di costume di quegli anni, centrale è la richiesta dei giovani di parlare di sesso. “Fate l’amore e non la guerra” è lo slogan più diffuso. La stampa underground di allora pubblica, come sfida politica e culturale, numerose immagini allora definibili come pornografiche. In questo clima si diffondono e aumentano anche le riviste pornografiche, la loro espansione e diffusione è considerata parte della lotta contro la repressione e la sessualità».
La seconda ondata del femminismo, per usare le categorie della storiografia anglosassone, è parte integrante di quel panorama che fu chiamato “rivoluzione sessuale”, resa possibile da un evento biopolitico enorme, di tale portata che nelle analisi si tende a dimenticarlo: la diffusione della pillola anticoncezionale. La divisione del sesso dalla procreazione era finalmente disponibile per tutte le donne. E conoscere il proprio corpo, conoscere il proprio orgasmo, raggiungerlo, non contentarsi di una sessualità mortificata, gestita da compagni e mariti noncuranti, è una delle pratiche centrali degli anni del movimento. Esattamente come le manifestazioni. È da questa forza originaria che nascono i gesti irridenti e sfidanti, come le mani a triangolo, a rappresentare quel sesso fino ad allora nascosto e sottomesso. E quindi auto-indagini, uso dello speculum per esplorarsi, in gruppo. Non per caso Speculum de l’autre femme è il titolo del primo libro di Luce Irigaray. La sessualità è alla base dell’affermazione di una soggettività inedita, “imprevista”, per usare una definizione di Carla Lonzi. E andrebbe considerato il gesto di alzare la gonna e mostrare la vagina nuda, a Milano l’8 marzo 2017, giorno dello sciopero delle donne, la sera, davanti al Palazzo della Regione, e il giorno dopo a Roma, di mattina, davanti al Vittoriano. Non più la simbolizzazione del sesso, ma il genitale reale. Un’azione che è destinata a diventare immagine, a iconizzarsi, in una circolazione infinita sul web. Una sfida all’eccesso di immagine del porno? O è l’interiorizzazione della pornografia come stile di comunicazione che l’ha prodotto? O prosecuzione con altri mezzi – quelli dei tempi contemporanei – dell’emergere e dell’auto proposizione della sessualità femminile?
Insisto, perché è da questo punto di vista che Michi Staderini affronta la pornografia, tra seminari tenuti al Centro Culturale Virginia Woolf e la propria ricerca. La domanda, sottintesa, è: la pornografia riduce la donna un oggetto? E naturalmente c’è una storia, alle spalle. E posizioni diverse, nel femminismo. Per esempio, in Italia, le azioni contro manifesti cinematografici di film ritenuti offensivi e pornografici, soprattutto film di Tinto Brass, contro il quale Elvira Banotti condusse vere e proprie azioni mirate. Una posizione che forse corrispondeva al sentimento di molte, ma che non è mai stato largamente condivisa. Del resto il cinema degli anni sessanta-settanta rappresentava con molta libertà le relazioni sessuali. Anche nel cinema d’autore. Basti pensare a Bernardo Bertolucci. E non penso a Ultimo tango, censurato, proibito, distrutto, sul quale si aprì subito una polemica sulla strumentalizzazione – da parte del regista e del protagonista Marlon Brando, icona della desiderabilità maschile – della giovanissima Maria Schneider. Mi riferisco invece a film come Novecento, che per esempio contiene scene di sesso girate in forme che oggi sarebbero impensabili. Eppure viviamo in un’epoca in cui tutto è possibile, nel sesso.
Ma torniamo a Michi Staderini, che nel libro riporta con chiarezza le posizioni estreme in cui negli Stati uniti il femminsimo si è diviso sulla pornografia. Da un lato Andrea Dworkin, che in Pornography definisce la pornografia non una rappresentazione del sesso, ma un reale esercizio di potere degli uomini sulle donne, una “metafisica” commenta Staderini, che considera assurde le sue teorie. Dall’altra parte il collettivo Samois, che in Coming to power non scrive un saggio sulla pornografia , «ma un libro che vuole essere pronografico». Il collettivo, che si autodefinisce “organizzazione sadomasochista lesbo-femminista” difende il sadomasochismo come relazione libera, consensuale. E attacca il femminismo antiporno, che propaganda una visione romanticizzata del sesso per le donne. Michi Staderini condivide molte delle posizioni di Samois, ma prende un’altra strada. Non le interessa normare, anche se da un diverso punto di vista, i comportamenti sessuali delle donne. Ovvero stabilire cosa è bene e cosa è male nel sesso per le donne. «Occorre criticare le forme di relazione tra i partners del rapporto sessuale, non i modi in cui si danno il piacere sessuale. Poiché è nel gestire la relazione che passa, a mio avviso, il potere nello specifico dei rapporti sessuali».
Negli stessi anni Roberta Tatafiore – morta suicida nel 2009 – che con Michi fondò il Virginia Woolf e con lei scambiò pensieri e ragionamenti – e disaccordi – su sesso e sessualità, nel suo Sesso al lavoro (1994), in cui assume del tutto il punto di vista delle sex-workers, scrive: «Il linguaggio della prostituzione coincide con il linguaggio del mercato. E il mercato, lo sappiamo, definisce merce, offerta, domanda, congiuntura: gli ingranaggi di un meccanismo che fa uso anche di corpi e anime, che omologa in una pretesa di parità rapporti umani disuguali e che nasconde sotto il termine di reciproca convenienza l’esercizio di sfruttamento». Anche per le relazioni sessuali a pagamento, per usare una definizione di prostituzione di Paola Tabet, il potere è definito all’esterno della relazione stessa, il denaro ne è a tutti gli effetti la misura. Una dimensione, quella commerciale e del mercato, che Staderini non prende minimamente in considerazione, ma va tenuto conto che il libro non è stato finito.
Interessante che due protagoniste del femminismo italiano abbiano sostenuto posizioni così libere e non corrispondenti al discorso mainstream tuttora corrente sulle donne e la loro sessualità. Nonostante gli evidenti cambiamenti di scenario. Se non della sessualità, certo del mercato. Che si possono riassumere in una sola parola: massa. Quello che era scarso e limitato, le riviste o i film pornografici, come il sesso a pagamento, è diventato accessibile a tutti. Compresi gli aspetti più improbabili, le pratiche non solo perverse, ma assurde. Ho sotto gli occhi un elenco di pratiche sessuali giapponesi, pubblicate da un magazine femminile, che include, tra l’altro: fare sesso con mentre il partner tiene un flauto in bocca, al momento dell’orgasmo ci si soffierà dentro, si riprodurrà un simpatico fischio. Pratica inventata dal maestro del porno, Toru Mauranishi. Fare sesso sul motorino. Mentre contemporaneamente è sparito, almeno in Occidente, il controllo della sessualità femminile. Gli esiti li abbiamo sotto gli occhi. Le adolescenti che fanno sexting, o che praticano sesso orale in cambio di una ricarica, o le ragazze che programmano sesso a pagamento per pagarsi gli studi, fanno certamente uso della propria libertà. Ma vivono la loro sessualità? O il sesso commerciale ne pervade completamente i desideri e le scelte? E, dall’altra cosa desiderano, i loro coetanei? Oltre le facili risposte, naturalmente.
Nell’introduzione alla recente riedizione del libro di Roberta Tatafiore, da me curata, scrivevo: «Negli anni Settanta, in un breve volgere di anni, le ragazze, le donne che si misero in gioco nel femminismo, misero in gioco tutta la loro vita. Non nel senso eroico maschile di scegliere un campo di battaglia e lì immolarsi, ma di far investire l’intera vita quotidiana da quella radicale presa di coscienza. Furono messe sottosopra relazioni, amori, famiglia, carriere. Lo scontro, nella vita, era intorno proprio al nodo dello scambio sesso-denaro-affetto, della dislocazione delle proprie vite, nel desiderio profondo di assumerne la guida. Non essere seconde. Neanche, e soprattutto, nel sesso».
Mi sembra che questo sia il punto. Libertà è la parola chiave. Tiziana Cantone, la ragazza che si è suicidata a causa di un video hard diffuso in modo virale nei social a sua insaputa, ha esercitato certamente la sua libertà. A parte il consueto sordo mormorio misogino e stigmatizzante, nessuno ha veramente ritenuto inimmaginabile la scelta di condividere con alcune persone quel tipo video, evidentemente pornografico, secondo i criteri correnti. Neppure fuori dagli ormai antichi circuiti del porno. Alla sua libertà, al suo gusto per quella particolare forma di sessualità, corrispondeva l’esercizio di un potere, o di una critica, insomma di una responsabilità? La tragica fine di Tiziana parla di lei, della trappola drammatica di cui si è trovata prigioniera. La domanda è quella che pongono le femministe che non si lasciano rinchiudere nel dilemma bacchettone/libertarie, come Michi Staderini e Roberta Tatafiore. Chi ha il potere, nella relazione sessuale? E quale? Una domanda tuttora aperta.