di Linda Laura Sabbadini *
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Kamala Harris è la prima donna eletta alla vice presidenza negli Stati Uniti: ce l’ha fatta! Una emozione incredibile per tutte le donne che credono che l’affermarsi di una donna è una vittoria di tutte. Una emozione incredibile anche per quegli uomini che credono che l’avanzamento delle donne sia un elemento di crescita e sviluppo.
Non è una donna qualunque, è fiera delle sue origini, delle sue radici indiane e giamaicane, si è messa al servizio della nazione, è competente e determinata. E ciò fa ben sperare che farà bene. È l’espressione della forza delle donne americane, che hanno saputo reagire energicamente anche con il movimento metoo. Le donne americane hanno tanta strada da fare, solo un quarto sono state elette, il 13 per cento tra le repubblicane, ma si va avanti per balzi e questa vittoria se ben gestita a favore delle donne da parte di Kamala Harris potrà preparare ulteriori progressi.
Vi devo dire però che all’entusiasmo si unisce un po’ di tristezza, pensando alla situazione del nostro Paese.
Possibile che siamo così indietro? Possibile che non riusciamo ad avere una donna premier? Possibile che sprofondiamo in tutte le classifiche quanto a uguaglianza di genere e la politica non reagisce adeguatamente? E facciamo fatica, tanta fatica a far capire che la battaglia per l’uguaglianza di genere non può essere rimandata, è una emergenza nazionale, deve essere una priorità. C’è qualcosa di profondo che non funziona.
Oggi è l’8 novembre. Quattro anni fa ero insieme a tante donne e alla Rete per la parità alla Corte Costituzionale in attesa della sentenza sul doppio cognome dei figli. Ne parlo perché questa situazione è lo specchio dell’arretratezza del nostro Paese, non solo sulle questioni di genere, ma complessivamente. Due coniugi avevano impugnato la sentenza che impediva di aggiungere il cognome della madre a quello del padre al bambino appena nato. La nostra legge lo vieta! Ebbene fui molto felice, e così le altre donne, che fosse stato dichiarato incostituzionale il divieto al doppio cognome. La Corte Costituzionale aveva raccomandato una indifferibile riforma organica destinata a disciplinare la materia “secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”.
Il Consiglio d’Europa si era già espresso chiaramente, sia nel 1995 che nel 1998 in relazione alla piena realizzazione della «uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli». E poi era arrivata anche la posizione della Corte di Cassazione nel 2004 e ancora della Corte Costituzionale che nel 2006 aveva dichiarato che il sistema dell’attribuzione del cognome paterno in Italia era un «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
Possibile che ci siano tutte queste resistenze a eliminare il retaggio di una concezione patriarcale preistorica?
Quella stessa che impedisce alle donne di emergere nei luoghi decisionali secondo i loro meriti e capacità. Si, possibile.
Facciamo sentire la nostra voce di donne unite per i nostri diritti. Dobbiamo batterci perché l’attribuzione del doppio cognome sia automatica salvo accordo tra i genitori per altra soluzione. Ma dobbiamo batterci anche contro un grande vulnus della nostra democrazia, il monopolio maschile del potere, alleandoci anche con quegli uomini che non fanno dell’esercizio del potere solo uno strumento di affermazione di sé e che puntano all’affermazione del merito e del bene comune. Se saremo determinati ce la faremo. E magari avremo anche noi la nostra Kamala Harris.
Editoriale da La Repubblica
* Linda Laura Sabbadini è direttora centrale Istat Le opinioni qui espresse sono esclusiva responsabilità dell’autrice e non impegnano l’Istat
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