Quando ho conosciuto Giorgio Bocca ero una giovane donna che faceva politica, dirigente nazionale nel partito socialista negli anni ’70-’80. Mi portavo dentro gli ideali di un padre ebreo e partigiano, che aveva sofferto le persecuzioni antisemite, e scelto la difesa del diritto a vivere e gli ideali della giustizia e della libertà. Per chi nasce e cresce in quel contesto, la conoscenza di un personaggio come Giorgio Bocca non poteva che essere considerato un onore ed un privilegio.
Ero a Courmayeur, quell’agosto del 1976, con il mio compagno. Andammo nella sua casa di montagna, semplice ed accogliente, come quelle di chi, sui monti ci aveva passato una vita intera. Ci accolse con quel sorriso che pareva una smorfia, il viso indurito dai venti e dalle temperature rigide. Dopo le strette di mano di rito Bocca chiamò sua moglie Silvia, per chiederle se sarebbe venuta a fare con noi una passeggiata per i sentieri. Declinò l’invito, e il modo in cui diede la risposta non lasciava dubbi sul fatto che ne avesse fatte già anche troppe, di quelle passeggiate. Fabrizio dal canto suo amava invece cercare tragitti sempre nuovi e tortuosi, ma quella volta la scelta fu lasciata a Bocca che si disse sicuro di portarci in un percorso sconosciuto ai più.
Personalmente non avevo grande dimestichezza con la montagna ma, non mi sono mai sottratta alle sfide di nessun genere. Anche quella volta, quindi, accettai senza obiettare. “Ti fidi della mia scelta?” mi chiese Giorgio e io risposi di sì. “Di dove sei?” mi domandò ancora, garbato. Fabrizio intervenne subito svelando le mie origini. “Hai un viso da celtica…Interessante“. Non ci dicemmo più nient’altro di personale.
Mentre noi due eravamo vestiti come se avessimo dovuto compiere una scalata sulla cima del Monte Bianco, lui venne indossando calzoni corti color cachi, rigirati sopra il ginocchio, una camicia a scacchi gialli e verdi con le maniche anch’esse rigirate ed un piccolo zaino. Mi pareva un tutt’uno con quei sentieri, con quei monti e saltava, camminava, saliva come un animale selvaggio: pazientava, ogni tanto, e rallentava per aspettarmi, ma senza malsopportazione. Con lo sguardo, anzi, di chi conosce bene la fatica delle scalate. Forse non era un caso che ogni tanto raccontasse dei dispersi o dei morti, per slave o slavine, giù nei dirupi: era un modo per avvertirci, o per farci sentire la sua protezione.
In quella salita non tacque per un solo momento: eppure parlare in salita era faticoso anche per Fabrizio che, pur allenato, ansimava. Si misero a parlare di politica, come era inevitabile dato che Fabrizio (Cicchitto, nda) era uno dei dirigenti e parlamentari più in vista nel PSI. Non era un modo di escludermi ma una necessità dettata dal fatto che ero troppo lontana per partecipare sentivo giusto le voci, qualche risata, i richiami verso di me. Ogni tanto, dietro la curva, spuntava Bocca, con le mani infilate nelle corde dello zaino e mi osservava con sguardo tagliente. Forse pensava che non ero adeguata al percorso scelto, che non ero altro che una donna con poca forza…Non lo so perché non me lo ha mai detto ma vederlo dal basso in cui mi trovavo e lui in alto a dominare me e le montagne mi rassicurava.
Non ricordo di avere mangiato cioccolata per sostenermi né di essermi fermata a bere o per riposare. Non avemmo, ce lo confessammo dopo, il coraggio d’interrompere quella camminata fino al ritorno. Ci fermammo a casa sua per bere una bevanda calda e si parlò ancora del più e del meno, ma soprattutto della sua Courmayeur che aveva dentro al cuore e che nel suo libro ‘Le mie montagne. Gli anni della neve e del fuoco‘. 2006 Feltrinelli, racconta con nostalgia:
“Quella Courmayeur dell’antifascismo azionista, colto ed elitario, non c’è più, e lo capisco quando il Bassanini che la gente conosce oggi non è il politico e scrittore, ma il figlio che fa la guida e si occupa del sesto grado superiore. Non era male quella Courmayeur d’intellettuali antifascisti. Si andava alla sera nelle loro case, nel loro modo di essere rigorosamente fuori da ogni volgarità, da ogni retorica, da ogni esibizione di potere e quasi ci si persuadeva che l’Italia fosse tutto o quasi così. Poi con l’autostrada e il traforo è arrivata la nuova borghesia del terziario commerciale, industriale e tecnologico, una borghesia selezionata nelle sue specializzazioni che non ha più non dico il piacere, ma la possibilità della conversazione, del linguaggio comune. E allora togli la politica, togli la religione e tutti gli argomenti su cui si contende e ci si appassiona, e si torna ai tempi delle table d’hotel, della clientela apolitica e delle acque termali.“
Scontroso, duro di modi e nella voce, quel grande giornalista, amato e criticato: mi lasciò il suo ricordo più umano, con un semplice, caloroso saluto.
l’Indro, 27 dicembre 2011