Sono sempre di più le donne che, in questi ultimi anni, hanno scelto professioni che una volta si consideravano tipicamente maschili. Non sono più mosche bianche nella magistratura, sono entrate in forze nel ministero delle Poste (e c’è anche chi tra loro è riuscita a salire in vetta). Studi legali e medici pullulano ormai di avvocatesse e di dottoresse. Insomma è caduto un tabù. Allora tutto bene?
Neanche per idea. "Se è vero che qualche donna ora è sostituto procuratore della Repubblica o diretto generale di qualche ministero, è altrettanto vero che la maggior parte mantiene, sui luoghi di lavoro, qualifiche mediobasse", dice una nota avvocato civilista (il titolo professionale pronunciato al femminile non piace alle interessate). Che per le donne in carriera vi siano ancora molti problemi lo dimostrano i dati più recenti forniti dall’Osservatorio del Pubblico Impiego. Ad esempio, nella sesta qualifica retributiva del 1988 della Regione Lazio, su un totale di 1.048 impiegati, 518 donne cioè quasi il 50%. Ma salendo di grado fino alle due qualifiche dirigenziale, la nona e la decima, restano rispettivamente solo 77 donne su 409 dipendenti e 10 donne su 110 massimi dirigenti. Al Comune di Roma oggi su un totale di trentamila dipendenti le donne sono addirittura in maggioranza: 15.704 contro 13.588 uomini. Ma anche qui la donna è, dal punto di vista della carriera, fortemente penalizzate. Come alla Regione si ha una grande presenza femminile al sesto livello retributivo (8.000 donne contro 4.000 uomini), quasi nessuna ai vertici della scala.
Gli strumenti giuridici a disposizione delle donne per denunciare e porre rimedio alle diverse situazioni discriminatorie sono ancora poco noti. Il Consigliere di Parità Regionale, una figura sconosciuta alla maggior parte delle donne, ne è un esempio. "La legge 19 dicembre 1984 n. 863 – spiega la dott. Marta Ajò, Consigliere di Parità Regionale del Lazio – ha istituito questa nuova figura in tutte le regioni italiane, ma in tutti questi anni non ha trovato attuazione quanto previsto in uno degli articoli del testo di legge. Le lavoratrici o le giovani disoccupate potrebbero in teoria ricorrere al Consigliere di Parità presentando una documentazione che provi un effettivo episodio discriminatorio. Il Consigliere a quel punto potrebbe attraverso una delibera della commissione regionale per l’impiego, avviare indagini nell’azienda responsabile. Il ruolo del Consigliere di Parità resta in ombra non solo per problemi legati alla disinformazione ma anche perché all’interno della commissione regionale per l’impiego ha soltanto funzioni consultive e non ha facoltà di voto. "Essendo in una fase sperimentale di attuazione della legge – dice la dott. Ajò – mancano ancora le strutture adeguate ed anche una maggiore sensibilità sociale e politica al problema della discriminazione nel mondo del lavoro".
Commento di Marta Ajò
L’istituzione della figura della Consigliera di Parità a livello regionale suscitò non poche interpetazioni sul ruolo che doveva svolgere. All’inizio non tutte le regioni la nominarono, ed almeno due regioni nominarono un uomo. I primi anni questo lavoro è stato svolto gratuitamente e per molto tempo le consigliere non hanno avuto strutture e supporti nè tecnici né tantomeno economici. Successivamente, nel corso degli anni, si è dimostrato l’importanza di questa figura, poi nominata anche a livello nazionale, comunale e provinciale e l’utilità che ha avuto ed ha a sostegno delle lavoratrici.