Il femminismo ha prodotto teoria, etica, critica storica, perfino pedagogia proprie, ma non una propria politica che sfidasse l'ambito maschile, dove nascono e si definiscono i poteri, di Giancarla Codrignani
Al femminismo del post-sessantotto non è mancato l'impegno teorico.
I primi tempi furono impiegati nella ricerca pratica di una consapevolezza nuova dell'essere donne ricorrendo ai metodi dell'autocoscienza e del separatismo.
Le donne uscivano da una tradizione emancipazionista che a poco a poco verrà contestata: si emancipano gli schiavi, i popoli oppressi, chi non ha diritto di imporre i propri diritti. Noi volevamo altro.
Dalla “scoperta” di essere non il secondo sesso, ma il secondo “genere” derivarono le scuole di pensiero. Le filosofe andarono dentro i problemi dell'autonomia fondativa del femminile e tutti i movimenti e le associazioni ne fruirono non solo aderendo a singole scuole, ma anche per effetti di ricaduta ricchi di contenuti e di possibilità propositive.
Contestualmente la realtà (cfr. i referendum su divorzio e aborto) si incaricava di far avanzare problematiche che coinvolgevano le donne come cittadine. Le dinamiche politiche egemonizzate dai partiti e dai sindacati influirono anche sulla “militanza” di genere: le emancipazioniste a fianco del Pci, le intellettuali soprattutto nelle forme radicali ed extraparlamentari, entrambe illuse di trovar casa nelle organizzazioni “neutre”. Le (ormai anziane, ma sempre influenti) femministe di stretta osservanza risentono tuttora delle esperienze ideologiche post-sessantottine di Potere operaio o Lotta continua per una sorta di assimilazione involontaria di metodi e rigidezze che ancora condizionano lo sviluppo del movimento alla base.
La sinistra più o meno radicale non ha trasformato le masse per incapacità di fare politica di consenso; molto femminismo non ha capito che, con gli stessi metodi, si riduceva a minoranza elitaria e, senza proposta politica, respingeva le non disinteressate pensionate di settant'anni e le disponibili ragazzine di sedici. Anche le dame attorno a Christine de Pizan o le patriote stile Belgioioso avevano avuto le loro brave aspirazioni di grandezza per il genere… È così accaduto che il femminismo, abbandonati i vecchi partiti al loro destino, ha prodotto teoria, etica, critica storica, perfino pedagogia proprie, ma non una propria politica che sfidasse l'ambito maschile, dove nascono e si definiscono i poteri.
La discriminazione si consolida con Aristotele o Machiavelli e l'arte politica continua a controllare il genere. Oggi si considerano con sufficienza le “quote”, mentre vanno di moda le ricerche sull'autorità femminile. Per la verità “autorità”, anche se “femminile”, comporta ancora “gerarchia”. Anche non volendo, essere leader significa (avere la delega di) comandare; come se, solo per esser in mano femminile, un potere non ridefinito potesse mutare. Nell'esperienza di classe i padroni venuti dal mondo operaio non hanno mai cambiato le relazioni di dipendenza. Le studiose del matriarcato sanno che la “dea” non rinnova se prima non si svuota l'onnipotenza neutra del dio e l'autorità maschile del sacro.
Il voto di tutti i maschi maggiorenni fu chiamato “universale”: senza le donne perché il pensiero unico definisce l'universo di ogni autorità e il 50/50 nelle cariche pubbliche non impedirà alla ministra della difesa di finanziare il militare prima degli asili dei bimbi. Noi femministe storiche dovremmo, dunque, riempire un vuoto: il “genere della politica”. Il rischio dell'omissione è evidente.
I benefici di legge, tanto più se pregressi, si erodono da sé: il divorzio sembra irrilevante rispetto alla trasformazione delle famiglie; la maternità non è mai diventata diritto e una donna deve essere autorizzata se vuole abortire; il manager o la womenager si omologano nel management neutro, mentre resta femminile la “cura” che non è riuscita a diventare né una filosofia né un nuovo potere.
Le ragazze sono sempre più brave a scuola e prima o poi emergeranno nelle carriere. Si sentono senza differenze, “non sono un panda che va protetto”. Saranno autorevoli. Sovrane. Quando il genere si farà sentire anche per loro, forse sempre a partire dal privato, chiederanno leggi che non modificheranno il diritto.
Sta ritornando l'emancipazionismo. Poche si accorgono che si tratta di una partita mortale: chi ha inneggiato alla fine del patriarcato rischia di aver sopravvalutato il passo indietro di uomini che, davanti all'eccellenza femminile, percepiscono il fallimento del modello unico che hanno inventato, compresi i ruoli e le dislocazioni dei poteri. Con graduali concessioni di sovranità consegneranno il loro modello alle nuove leve, integrate nel sistema, in crisi, ma immutato.
Forse ci saranno meno femminicidi, non meno conflitti. Più sana competitività, non più cura. Forse è urgente cercare con la testa pensante a come uscire dalla crisi non peggiorate, non foss'altro per risparmiare alle new entry la perpetua scoperta dell'acqua calda. Le ragazze di oggi sono splendide: c'è chi non sopporta la suora che canta il rock, come se una suora non avesse il diritto di essere una ragazza come le altre (magari con un altro vestito). Anche se non tutte sanno quello che abbiamo fatto, nemmeno noi sappiamo tanto di loro.
Forse è proprio questo il tempo giusto, accettando le differenze di ogni genere tra noi, per studiare e, finalmente, proporre una politica come techne femminile, forse “specialmente” femminile.