Ciò che racconterò mi è stato confidato da una mia collega neuropsichiatra dei tempi del mio tirocinio come specializzanda in psicoterapia a Milano il giorno in cui mi disse: “Paola, ascolta, questo è un caso orribile, specialmente per noi donne!”
Mi parlò di Maria (nome di fantasia), nata l’11 settembre 2001 a Firenze, che era stata data in affido ad una famiglia di Milano, in seguito all’abuso psicologico e fisico da parte del padre naturale, bigamo con una doppia vita e una doppia famiglia, uomo problematico cresciuto a sua volta in una famiglia di analfabeti e priva di stabilità economica.
Questo il contesto in cui fu concepita Maria, da una giovane madre di 19 anni, innamorata e poco consapevole delle avvisaglie di aggressività dell’uomo nei suoi confronti, priva della forza di denunciarlo per gli abusi ripetuti né della violenza psicologica sulla figlioletta.
Un calvario, quello della piccola, che ben presto si manifestò a scuola dove spesso si presentava alle insegnanti con lividi alle gambe e alle braccia, capelli spettinati e poca igiene in generale. Cadeva addormentata sul banco e non aveva il corredo scolastico per affrontare le lezioni di terza elementare. Mangiava poco, era quasi inappetente e alla mensa della scuola rifiutava quasi di sedersi, girovagando senza requie, quasi iperattivamente.
Parlava poco anche con i compagni, li guardava con sguardo diffidente, malcelando la paura che aveva dentro.
Si poteva immaginare la presenza di un padre violento che la bistrattava in continuazione quando era a casa, vessandola e insultandola, spesso bevendo litri di superalcolici?
E ancora, cosa sarebbe potuta diventare Maria crescendo? Buona o perfida come il padre? Debole come la madre che, essendo indifesa e fragile, rappresentava a sua volta una minaccia per la sua stabilità emotiva e psicologica?
Si ammalò Maria, come solo la violenza può fare ammalare, nel corpo e nell’anima!
Una sofferenza che la trasformò da bambina fiduciosa a bambina precocemente indifferente, dura, aggressiva con tutti, soprattutto con le autorità, come gli adulti di riferimento.
Presa in cura dal servizio minori di Lastra a Signa, nelle vicinanze di Firenze, le sue insegnanti notavano un inasprimento dei rapporti anche con loro.
Un’istintività diffusa, troppo generica, come causata da una rabbia incontrollabile, che comportava frequenti agiti improvvisi. Quasi fosse già malata di un disturbo dell’attenzione, o di disturbo oppositivo e antisociale.
Un autostima, secondo il parere della neuropsichiatra del servizio che l’aveva ascoltata in più sedute, molto bassa che la portava a confondere la sua persona, ovvero la sua personalità, il suo sé, con quella del padre aggressore, dicendo a volte che era lei a iniziare le violenze, lei era la “cattiva”.
Incominciava a modo suo a delinearsi, identificandosi con la personalità violenta del padre, “deviante” direbbero gli operatori clinici della psiche.
L’uomo, indagato dal servizio minori, sapeva soltanto piagnucolare senza mai mettersi in discussione, nel tentativo di non perdere l’affido di Maria. Anche la madre non riusciva a dialogare minimamente con lui per difendere l’incolumità fisica e mentale della bambina, oltre la sua.
A distanza di 15 anni, ho saputo che Maria ha avuto modo di ricevere un’educazione adeguata e dignitosa, civile e rispettosa dell’ Altro, ovvero degli altri. Ha seguito un percorso di psicoterapia psicoanalitica che l’ha aiutata a elaborare i suoi vissuti di rabbia e di rancore, vergogna, odio e paura.
Oggi Maria è abbastanza serena e pensa di poter contare sulla sua nuova famiglia con valori umani fondamentali, come la sua religiosità infantile le aveva insegnato.
La violenza ammala chi la subisce! La si deve combattere e la si può vincere: forse non sempre, ma è una battaglia da cui nessuno può sentirsi renitente.