‘Libeccio’, di Folco Quilici

da | Feb 21, 2010 | Editoriali

Il Libeccio, detto anche Africo perché spira dalla Libia, è un vento dalle caratteristiche particolari; è conosciuto molto bene per il calore che porta con sé; soffia generalmente come brezza di mare lungo le coste occidentali e come brezza di terra lungo quelle orientali; nella stagione estiva può fohnizzarsi. Sono proprio le libecciate di fine estate che spesso distruggono i raccolti e le piante.
Infatti, , pur essendo un vento di mare, ha poche caratteristiche di tali venti e generalmente nasce molto velocemente, sviluppandosi fino a raggiungere una potenza eccezionale, per poi calmarsi con la stessa rapidità con cui è nato.
E nessuno poteva rappresentarlo meglio, fra il genere umano, di quel giovane toscano che per percorrere l’avventura della vita volle perdere il proprio nome per presentarsi nel mondo, diventando Libeccio, detto Beccio.
E come quel vento egli andò nel viaggio della vita, muovendosi e smuovendo territori, sentimenti, incontri fino alla sua fine; una libecciata di vita fino alla calma piatta della morte.

Vissuto in Toscana nella seconda metà dell’800, insofferente della vita nella toscana Lucchesia, lascia l’Italia  insieme a due giovani anarchici a cui l’univa un forte legame di amicizia, insofferente alle leggi e alle costrizioni famigliari ma forse anche per un meno idealista desiderio di sottrarsi all’arruolamento nelle prime guerre coloniali.
Tutti e tre
inseguendo l’illusione di poter raggiungere selvagge terre lontane dove divampava la febbre dell’oro, sognando libertà e fortuna.

E l’abbandono dei propri nomi di battesimo, la scelta di chiamarsi come i venti più impetuosi quali Libeccio, Grecale e Maestrale, non è che il primo e simbolico gesto che essi compiono prima di  affrontare insieme un mondo sconosciuto in cui dovranno superare ostacoli imprevisti e vivere situazioni emozionanti e drammatiche che si manifestano fin dall’inizio di questo lungo viaggio.

La nave su cui s’imbarcano non è che una carretta del mare che viene sequestrata in Argentina, impedendo loro di raggiungere la terra dei loro sogni  di speranza e di ricchezza, l’America. E la difficoltà di raggiungere gli Stati Uniti fa, forse, loro rimpiangere almeno una volta il paese che hanno lasciato.
Ma il loro ritorno si fa alquanto improbabile in seguito all’espansione e il coinvolgimento del movimento anarchico  nell’assassinio di re Umberto I a Monza, nel 1900.
Nonostante che questi tre ragazzi fossero fondamentalmente molto più idealisti che anarchici, il ricordo che avevano lasciato dietro di loro ed ai loro concittadini di appartenere a quel pensiero, rendeva il loro ritorno ancora più lontano; gli anarchici infatti vennero ricercati ovunque, anche negli Stati Uniti e in America Latina, dove molti di loro emigrarono.

Dei tre, Beccio sarà il solo a non lasciarsi mai abbattere, deludere, vincere.
Non lo fermerà nemmeno la dolcezza d’una donna straordinaria, che gli donerà felicità e sicurezza ma che non riuscirà a soffocare il suo desiderio di libertà., neanche quando Soledad (così il nome di questa donna)  sparisce dalla sua vita e:
” S’ubriacò, quella notte. Confuse i suoi lamenti con i lugubri canti del Venerdì, a volte interrotti dalle grida dei fedeli sanguinanti per le frustate che s’infliggevano durante la processione. Poi il cielo venne rischiarato dall’aurora ed ebbero inizio per lui gli infiniti giorni vissuti senza Soledad  e senza amore”.
Con i due compagni, Beccio proseguirà, senza voltarsi indietro, il cammino verso la loro meta lontana, fino all’Alaska.
.

Un libro con molti avvenimenti, molti personaggi, poche donne essenziali al racconto, un cane di passaggio e un protagonista a volte antipatico, burbero eppure coerente fino in fondo, che non finisce di sorprendere il lettore al suo inseguimento, per l’appunto Libeccio.
La cui storia,  dopo 25 anni dalla partenza dall’Italia e ritornato al suo paese, parrebbe arrivare a termine, anziché finire inizia (e chi lo leggerà capirà il perché).
Nel raccontare di Lui, l’autore ci racconta, con sapiente ironia e con passione umana, la gente, le cose di questo mondo.
Perché, protagonisti insieme a Libeccio, sono l’amore per la libertà,  il gusto dell’imprevisto, la fatalità del destino, la curiosità umana, gli affetti, l’amore, i rapporti familiari, il valore dell’amicizia ed infine, sovrana, la volontà dell’individuo.

Di Libeccio s’è detto, essere uomo rude ma di sentimenti nobili, con un alternarsi di stati d’animo che contraddistinguevano da sempre il suo carattere “tu sei fumino quando devi star calmo e calmo se devi pigliar foco”, che ama la libertà e che per raggiungerla lascia dietro tutto quel, forse poco, che gli apparteneva.

In questo progetto di viaggio infatti si lega e coinvolgerà i due suoi amici, a cui l’uniscono uguali sentimenti e con i quali dividerà ogni difficoltà fino a perderli drammaticamente.
Lui e i suoi compagni nell’inseguire il loro sogno non arrivano che alla miniera di Rabbit Creek;
unica concessione mineraria abbandonata “eccoli in due capanne costruite con tronchi d’albero da chi, prima di loro, aveva cercato invano l’oro”.
Forse in quel momento Libeccio ebbe chiaro di mentire a se stesso: quel sogno tanto agognato restava tale. Perché il Beccio che era partito dal suo paese, dove viveva una militanza nella quale si sentiva un uomo libero, senza obblighi e legami, posseduto più dal mito della totale libertà che dal desiderio di lottare per abbattere il potere politico scelse, in fondo, di andare in volontario esilio proprio quando arrivava l’obbligo di prestare servizio militare.

I tre giovani si erano convinti che avrebbero scavato e trovato pepite e polvere aurea leggendo racconti sulle zone aurifere della California, del Montana, del Colorado ed anche quando dalla miniera di Rabbit Creek non ricavarono che briciole, essi sentivano di essere liberi e di non dipendere da nessun padrone che avrebbe potuto obbligarli o punirli.
Ed è in quel luogo che il sogno abbandona Libeccio quando, tornato dopo una breve assenza, cercherà invano i compagni che si erano inoltrati nella galleria della miniera.

“Come un’invisibile bava velenosa, il maledetto grisou usciva a zaffate dalla bocca di rocce spalancata davanti a lui.

Tornò alle capanne in una corsa forsennata.

Nel magazzino rovistò tra casse ammonticchiate. Cercava Il maschere usate nei primi tempi di lavoro in miniera e poi abbandonate dimenticando il pericolo dell’inodore, mortale.

Ne trovò una, ripulì il vetro coperto di polvere e sporcizia. Avvitò il filtro mentre tornava verso il varco aperto tra le rocce.

Col cuore che gli batteva per l’ ansia e la paura si infilo quella protezione che copriva gli occhi, il naso e la bocca e si mosse verso l’interno.

A ogni passo tutto s’ oscurava attorno a lui, perchè non stringeva tra le mani la solita lampada a petrolio. Col tempo avevano finito per dimenticare la pericolosità del grisou, non solo velenoso, ma pronto ad avvampare ed esplodere al contatto con una fiamma.

Svaniti i tenui riflessi di luce provenienti dall’ esterno, Beccio giunse a una cinquantina di metri dall’apertura. Qui le pareti, la volta e il selciato della galleria formavano uno spazio senza contorni.

S’immobilizzò, in attesa di abituarsi a quel buio. E avrebbe preferito non riuscirci quando, pochi istanti dopo, presero forma davanti a lui due corpi carbonizzati.

I compagni, rattrappiti nell’ ultimo spasimo.

Sentendosi soffocare dall’ orrore, li vide molto più piccoli di quanto ricordasse e sperò per un attimo che quelli non fossero i loro resti. E invece lo erano. Esplodendo, il gas li aveva divorati.

Accanto, i resti del cane e le lampade accartocciate, quelle che tutti e tre usavano da tempo durante gli scavi in quella montagna, tranquillizzati dall’assenza di tracce di grisou filtrate dalle fessure nelle rocce.

Nulla li aveva messi in guardia.”.

Il ritorno dal lungo viaggio e il risveglio dal grande sogno, riporta Libeccio alla sua terra e fra quella generosa gente, pronta a dimenticare la sua “fuga” e le sue stramberie. Sarà accolto ed amorevolmente curato dalla sorella Betta, vigilato dai nipoti ed infine curato da un vecchio amico medico.

Libeccio potrà vivere i suoi ultimi istanti serenamente.
Come in tanti momenti della sua lunga avventura, Strale e Greco gli apparivano nella mente scherzosi, ridenti. E finalmente, nel suo ricordo, l’orrenda immagine dei loro corpi carbonizzati nella miniera di Rabbit Creek venne cancellata.
E il valore e la profondità dell’amicizia, che fin dalle prime pagine circonda questa storia, non abbandona Libeccio neanche nei momenti finali quando nei suoi ricordi tornano le immagini degli amici come se le rivivesse.

“Ai limiti di un collasso, Beccio non riusciva a distogliere lo sguardo dai compagni a terra. Immagine confusa, nel vetro ancora sporco della maschera, per di più appannata dal sudore sceso a velargli gli occhi. Non erano lacrime, le sue: il pianto non sarebbe sopraggiunto mai a liberarlo di quel ricordo… Barcollando, torna sui suoi passi, strappandosi la bardatura della maschera appena all’aperto. Cadendo sulle ginocchia e rialzandosi a stento, riuscì infine a raggiungere la capanna. E là crolla su uno dei letti, dove rimase forse per un giorno intero. …Nelle immagini più volte scomposte e ricomposte in quelle ore, Strale e Greco gli apparvero ancora una volta vivi, accanto alla capanna. Sembravano aspettare il suo ritorno da Rajak. Vicino a loro scodinzolava Rasti, il bastardo con un destino crudele di cane da combattimento, salvato da una sua carezza.
…I resti dei compagni li raccolse l’indomani e mentre affrontava tremando quel compito, gli torna la memoria del giorno in cui loro tre avevano rinunciato, nei tempi lontani della gioventù e della rivolta, ai loro nomi di battesimo e di famiglia, e avevano deciso di chiamarsi Maestrale, Libeccio, Grecale. Denominazione di venti che avevano scelto sperando nella loro forza e nel loro aiuto per essere portati oltre l’orizzonte (e se oggi le rive dell’ oceano fossero state vicine, avrebbe sepolto tra le onde quel che restava degli amici).
…Stordito e confuso, sballottato tra dolore e rabbia, un solo pensiero gli parve conclusivo: la sua vita era finita quel giorno, insieme a quella dei compagni.”

Cinquant’anni dopo la partenza dall’Italia, Beccio è infine tornato alla sua casa, nel piccolo paese vicino a Lucca dove la sorella Betta lo accoglie con tenerezza e commozione. Ma nemmeno a lei Beccio vorrà raccontare della sua odissea; e solo a poco a poco, dalle rare parole pronunciate con un singolare personaggio del paese o con il nipote più giovane, tra le righe di un quaderno sgualcito, lungo le rughe di un uomo che ha molto vissuto, il lettore vedrà emergere indizi che disegnano momenti ed episodi di una vita memorabile. Tutti straordinari, tutti alla fine riconducibili a un tesoro che proviene dalle terre dell’oro d’Alaska: una piccola cassa verde destinata a scomparire in circostanze misteriose nella notte della morte, che non danno pace alla nutrita, variegata famiglia accorsa al suo capezzale.

“Composto in una di quelle bare utilizzate negli ospedali per i più poveri, il corpo giaceva al centro dell’oratorio. Sul suo volto, la serenità di chi muore senza accorgersene, o meglio, di chi attende la fine come una liberazione”. 

Del contenuto del bauletto verde, che per molte pagine del racconto tormenta giorni e notti dei parenti di Beccio,  il lettore conoscerà le ragioni di quella sparizione solo dopo la sua morte e insieme ad essa  il segreto più sofferto di Libeccio.

Folco Quilici,viaggiatore, scrittore, regista ed autore di molti libri di successo, in questo romanzo  partendo da una storia vera, racconta una grande fuga al di là dell’Oceano, un’avventura attraverso tutta l’America e attraverso un sogno di felicità, e contemporaneamente traccia un ritratto vivacissimo, pungente, saporito di una famiglia italiana.
Rendendo, infine, giustizia alla grandezza di chi sa mettere in gioco la propria vita e la propria stessa identità nel nome della libertà.

ViadelleBelleDonne
19 febbraio 2010