Persiste la scarsa valorizzazione delle donne nel mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nazionale migliora, ma siamo ancora al di sotto della media Ue. Conseguenze sulle pensioni e sul declino futuro della popolazione.
Nel 2021, l’anno per l’Italia della forte ripresa economica dopo le chiusure della pandemia, il tasso di occupazione[1] femminile, in età 20-64 anni, è pari al 53,2% e mostra ancora un divario di quasi 20 punti percentuali rispetto a quello maschile che, per le stesse età, raggiunge il 72,4%. Il corrispondente tasso di occupazione femminile della media Ue27 è pari a 67,7%, 14,5 punti percentuali in più di quello italiano.
L’analisi per classi di età mostra, tuttavia, un miglioramento del tasso di occupazione femminile per le italiane più giovani – 25-34 anni –, con tasso di occupazione pari a 54,0%, e per quelle in età 35-44 anni, con tasso pari a 62,4%, rispetto alle donne più grandi di 50-64 anni che presentano un valore pari a 50,1%.
Per capire come andranno le cose in futuro non possiamo prescindere dal forte calo della natalità della popolazione italiana, che si sviluppa in modalità esponenziale e che vede scendere le nascite a 399.431 bambini, dei quali solo 194.600 sono femmine. Troppo poche perché l’Italia non prosegua a un ritmo molto elevato nel declino demografico già iniziato. Infatti, la popolazione italiana, compresi gli stranieri, è passata da 59.236.213 a 58.983.122 residenti nell’arco dei 12 mesi del 2021; i decessi superano di quasi 310 mila unità le nascite e la causa principale di questo bilancio demografico negativo è imputabile alle poche nascite.
Le difficoltà che le donne italiane, più scolarizzate e istruite degli uomini, incontrano per l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro stanno nel pregiudizio miope di molte aziende che contrastano la maternità considerandola una spesa e un handicap produttivo, imponendo alle donne contratti part-time e dimissioni in bianco, senza pensare che l’Italia, priva di un adeguato potenziale di future generazioni di lavoratori, dovrà importare mano d’opera qualificata e non qualificata dai Paesi del terzo mondo o dall’Asia, con un flusso inverso alla delocalizzazione se si volesse incrementare la produzione domestica. L’alternativa sarà il ricorso massiccio alle importazioni di ogni tipo di genere produttivo, con i rischi e le incognite geopolitiche.
Se si analizza poi l’aspetto retributivo per genere, i dati Inps[2] evidenziano per il 2020 un reddito medio annuo lordo da lavoro di 24.702 euro, con una media di 41,3 settimane lavorate, per gli uomini e di 17.929 euro, con una media di 38,8 settimane lavorate, per le donne. Non solo la durata del lavoro nell’anno è ridotta per le donne, ma anche la retribuzione media è più che proporzionalmente ridotta. A parità di retribuzione le 38,8 settimane lavorate dalle donne dovrebbero essere retribuite con 23.207 euro, invece il gap è di 5.278 euro annui in meno rispetto agli uomini! Non poco, purtroppo la strada per l’uguaglianza economica di genere è ancora molto lunga.
Le cose vanno anche peggio per la componente femminile dei pensionati. Nel 2020 le pensionate rappresentano il 51,8% dei 16.041.202 percettori totali, ma ricevono solo il 43,8% della spesa complessiva di 307.690 milioni di euro erogata per le pensioni. Il reddito medio annuo lordo (somma degli importi di tutti i trattamenti previdenziali percepiti) di una pensionata è di 16.233 euro contro i 22.351 euro annui di un uomo pensionato. In questo caso il divario di genere sale a 6.118 euro annui.
La situazione economica descritta dalla situazione delle donne pensionate, proviene da lontano e rispecchia gli aspetti socio economici di dieci, venti, trent’anni fa. Le donne laureate erano poche, molte donne non lavoravano o abbandonavano il lavoro per la cura familiare perché decenni fa nascevano più figli e per il futuro sostegno alla vecchiaia puntavano, più che a una pensione diretta, alla pensione di reversibilità. Infatti, i trattamenti di reversibilità per l’87,1% del totale sono erogati a donne.
I dati sulle pensioni vigenti al 1.1.2022 delle gestioni Inps mostrano che il 62,9% delle pensioni di vecchiaia sono erogate a donne, contro il 37,1% degli uomini. Tale categoria di pensione è da sempre appannaggio delle donne perché richiede meno anni di anzianità contributiva (almeno 20 anni), ma un’età più elevata (67 anni dal 2018). Le pensioni di anzianità o anticipate, che, invece, richiedono carriere continue con molti anni di contribuzione (41 anni e 10 mesi per le donne, un anno in più per gli uomini), senza però un limite di età, sono per la maggior parte (75,1%) erogate agli uomini e le donne riescono ad usufruirne solo per il restante 24,9%.
Anche la vasta categoria dei trattamenti assistenziali che non derivano da contribuzioni versate (pensioni e assegni sociali, pensioni di invalidità civile e indennità di accompagnamento) riguarda prevalentemente il genere femminile, che ne percepisce il 59,5% del totale contro il 40,5% ricevuto dagli uomini.
Queste considerazioni mostrano chiaramente come deve essere superata la scarsa valorizzazione delle donne nel mercato del lavoro, le cui conseguenze si proiettano anche nella sua vecchiaia e nel declino della popolazione.
di Antonietta Mundo, statistica e consigliera Unipol
[1] Tasso di occupazione: rapporto tra gli occupati e la corrispondente popolazione di riferimento.
[2] Inps – Osservatorio statistico lavoratori dipendenti e indipendenti – Anno 2020.
fonte: FUTURAnetwork