"Eravamo 98 figli": l'odissea di Hamidah, d La storia di miseria e riscatto di una ragazza di Kampala, diventata imprenditrice nel Paese in cui il 60% dei giovani non ha lavoro, di Tommaso Carboni
Slum di Kampala, Uganda: stradine di terra rossa e case malconce. Mezzanotte. In una piccola bottega la luce è ancora accesa. Dentro, qualche parola rompe ogni tanto la monotonia delle cucitrici automatiche. Tra vestiti e manichini, campeggiano, appesi al muro, due manifesti elettorali. Su entrambi c’è il volto determinato di Hamidah Nambajjwe, da sette anni rappresentante del partito di governo nella circoscrizione più povera di Kampala. «Eravamo 98 figli, ma quando papà è morto ne ha lasciati 76. Ora siamo in 72».
Hamidah comincia da qui la sua storia. Trentasei anni, alta e robusta, quando racconta i suoi occhi sorridono. Comincia da un padre poligamo eccezionalmente fecondo, e un esercito di fratelli e sorelle cresciuti in un paesino alle porte di Kampala. Un viaggio tumultuoso che dallo squallore dei vicoli dove finirà per prostituirsi la condurrà al riscatto grazie ad Amref, tra le Ong più impegnate nel continente africano.
Oggi ha una sartoria in cui lavorano una ventina di ragazze, anche loro ex-prostitute. Questa notte stanno completando un grosso ordine: circa ottocento uniformi per due scuole, da consegnare il prima possibile. Hamidah esamina il lavoro fatto finora: manca poco. «Fra mezz’ora abbiamo terminato, poi si va a dormire, abitiamo tutte qua vicino». Si vede che le ragazze le sono molto grate. Katiginya, l’ultima arrivata, è minuta e parla con un filo di voce. Ventisei anni: un po’ più grande delle altre, ma con una storia simile. Si è ritrovata a Kampala senza soldi e la strada le è sembrata l’unico modo per sopravvivere. «Lei però non è rimasta incinta», ci dice Hamidah. «io alla sua età avevo già due figli, maschio e femmina, da uomini che non ho mai più visto».
Hamidah si è trasferita a Kampala alla fine degli anni novanta. «Avevo diciott’ anni e i miei genitori erano appena morti d’Aids». L’idea era quella di studiare, ma è finita in casa con un’amica che le ha presentato il primo cliente. Si guadagna bene, le ha detto. Oggi ricorda solo la paura, la violenza, l’umiliazione. Le capitava di entrare nelle case e invece di un uomo trovarne quattro. «Qualche volta mi hanno picchiata; i poliziotti erano i più pericolosi: al posto di arrestarti ti violentavano». Eppure non riusciva a smettere. Quando è rimasta incinta, lasciava i figli alla baby-sitter. Una notte sua sorella, passando a bordo di un taxi, l’ha riconosciuta a lato della strada. «Ha provato a fermarmi: non ascoltavo».
Avanti così per un anno e mezzo, come sotto ipnosi; finché sul serio ha rischiato di morire, strangolata da un cliente. Quella dose di puro terrore in fondo è stata la sua salvezza. Si è convinta a fare il test dell’Hiv ed è risultata negativa. Poi ha aderito a un progetto organizzato da Amref; un apprendistato per sarte, a cui partecipavano altre sex-worker come lei; durava un anno ed era perfino pagato. «Ero brava, dopo un po’ mi sono messa in proprio; ho preso a lavorare con me prima cinque, poi dieci, quindici ragazze». Mi sono salvata, si è detta: adesso devo ricambiare.
Sapeva di aver sperimentato sulla sua pelle alcuni dei problemi più drammatici del suo Paese. Certo, la prostituzione era una piaga, ma come c’era finita in quella situazione? Bisognava intervenire alla radice, bloccando la catena di eventi che aveva spinto lei e tutte le altre ragazze in quel vicolo cieco. Per molte, si accorse, il punto di partenza era questo: famiglie troppo grandi, con poche risorse da investire nell’educazione dei figli. Quelle ragazze, il più delle volte, prima di diventare prostitute erano studentesse che avevano abbandonato la scuola.
Questa sorte dipendeva in buona parte dal fatto che l’Uganda, come il resto dell’Africa sub-sahariana, era – ed è tutt’ora – nel pieno di una fortissima crescita demografica. Nel Paese vivono 41 milioni di persone e le donne partoriscono in media 5,7 figli a testa; oltre a ciò, il 45% della popolazione è sotto i 15 anni e «molto presto raggiungerà l’età riproduttiva, col rischio di scatenare un aumento incontenibile della popolazione», ci spiega, visibilmente preoccupato, Abenet Berhanu, direttore di Amref in Uganda. «In queste condizioni è molto difficile garantire servizi ai cittadini, tra cui educazione e sanità, e allo stesso tempo investire abbastanza risorse in settori produttivi dell’economica, quelli che creano occupazione; e, oggi, più del 60% dei giovani ugandesi non ha lavoro». È un problema immenso che riguarda tanti altri Paesi africani, continua Roberta Rughetti, coordinatrice dei programmi in Africa di Amref Italia: «Donne con molti figli hanno meno tempo per lavorare e contribuire all’economia. Governo e agenzie di sviluppo fanno il possibile, ma per migliorare l’accesso a salute riproduttiva e pianificazione familiare servono molti più investimenti».
Riflettendo anche lei sulle stesse questioni, alla fine degli anni duemila, Hamidah si è convinta di due cose: «Primo, ero diventata ormai un punto di riferimento per la mia comunità; secondo, che la pianificazione familiare cominciava dai banchi di scuola». Da lì a impegnarsi in politica c’è voluto poco: nel 2011, si è candidata, vincendo con il 98% delle preferenze, alla circoscrizione di Kawempe, il quartiere più povero e più vasto di Kampala, per rappresentare il partito di governo. «Mi è stata affidata proprio la presidenza del comitato responsabile del sistema educativo». Con una valanga di voti è stata confermata nel 2016.
Oggi, ci spiega, «la mia priorità è far sì che aumentino le iscrizioni a scuole medie e superiori. Sono ottimista, anche se, ad esser sinceri, le statistiche non sono molto incoraggianti». Secondo i dati dell’Unicef, solo il 16% dei ragazzi e il 18 % delle ragazze ugandesi frequenta il cosiddetto ciclo di istruzione secondaria. Lei, comunque, la sua parte l’ha fatta: i due figli grandi, avuti con clienti spariti nel nulla, hanno entrambi studiato con profitto. «Maria, mia figlia 17enne, finirà il liceo quest’anno e vuole iscriversi alla facoltà di legge; Musanje, il maggiore, ha appena cominciato l’università. Ne sono orgogliosa: diventerà agronomo». C’è anche un bambino piccolo, cinque anni, che Hamidah ha avuto da suo marito, con cui si è sposata otto anni fa. In otto anni un solo figlio? «Sì, gli ho detto che la famiglia era già abbastanza grande e lui è stato d’accordo».