Oltre 100 i femminicidi dall'inizio dell'anno, uno ogni tre giorni. I numeri del fenomeno in Italia e i provvedimenti adottati per contrastarlo
La parola femminicidio suona male. Però serve. Definire in modo appropriato la categoria criminologica del delitto perpetrato contro una donna perché è donna, è necessario. Per capire e spiegare meglio contesti, cercare di non banalizzare il fenomeno e di non ridurlo a una invenzione mediatica. Anche perché i numeri parlano chiaro. Oltre 100 i femminicidi dall’inizio dell’anno. Praticamente uno ogni tre giorni. In giugno Camera e Senato hanno avviato un iter legislativo per contrastare la violenza sulle donne: attraverso la ratifica della Convenzione di Istanbul e della presentazione in agosto di un decreto legge, convertito in legge pochi giorni fa. Provvedimento che, però, ha attirato su di sé svariate polemiche e che ha subito continui rinvii nella sua finalizzazione.
LA PAROLA – Il termine femminicidio si usa quando in un crimine il genere femminile della vittima è una causa essenziale, un movente, del crimine stesso, nella maggior parte dei casi perpetuato all’interno di legami familiari. Donne uccise dai fidanzati, mariti, compagni, ma anche dai padri a seguito del rifiuto di un matrimonio imposto o di scelte di vita non condivise. Come ricorda l’esperta e avvocato Barbara Spinelli, consulente dell’ONU in materia di violenza sulle donne (autrice del libro “Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale”), questa parola non se la sono inventata i giornali. Negli anni ’90 una antropologa messicana di nome Marcela Lagarde ha analizzato le violenze perpetuate sulle donne messicane individuando le cause della loro marginalizzazione in una cultura machista e in una società che non dà tutele dal punto di vista giuridico, con indagini lasciate pendere e con lo stupro coniugale non considerato come reato. Lagarde è la teorica del termine femminicidio. In esso, oltre all’omicidio, racchiude anche tutte le discriminazioni e pressioni psicologiche di cui una donna può essere vittima. Lo definisce così: “La forma estrema di violenza di genere contro le donne – scrive Lagarde – prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”.
I NUMERI – Di genere si muore. Il quotidiano La Stampa ha avviato un osservatorio per monitorare i femminicidi appuntando su una mappa dell’Italia i casi di cronaca. Dall’inizio del 2013 questo osservatorio ha contato 73 casi di femminicidio e 38 casi di omicidi generici di donne. La distribuzione geografica dei crimini è abbastanza omogenea lungo il Paese sebbene si possano notare alcuni “addensamenti” di casi in area milanese e napoletana. Gli omicidi si possono suddividere anche in base al mezzo usato per uccidere. E nella maggior parte si uccide in modo quasi atavico: con un’arma da taglio, magari un coltello trovato in cucina (sono 34 i casi del genere) oppure a mani nude (33 omicidi). Meno usate le armi da sparo (24 episodi); si contano poi 11 uccisioni con corpo contundente, 5 casi di donne arse vive, ed una che è stata avvelenata.
Nel 2012 sono state 124 le donne uccise da uomini. Il conto l’hanno fatto le volontarie della Casa delle donne di Bologna, unica realtà in Italia che si occupa di raccogliere i numeri sul femminicidio basandosi sulle notizie pubblicate a mezzo stampa. Infatti, sebbene il comitato della Cedaw (la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, che l’Italia ha sottoscritto), nel 2011 abbia richiesto all’Italia di strutturare un metodo per raccogliere i dati sul femminicidio, il nostro paese è indietro e una raccolta ufficiale ancora non esiste. Secondo il dossier che la Casa delle donne ha presentato lo scorso 8 marzo, la maggior parte dei delitti avvenuti nel 2012 si sono svolti – a dispetto degli stereotipi – nel nord: uno degli elementi individuati come “scatenanti” sarebbe la parità di genere. Il 31% delle vittime di violenze domestiche erano straniere e di nazionalità italiana il 73% degli assassini. Il rapporto della Casa delle donne di Bologna ha evidenziato tuttavia una nota positiva: una maggior attenzione della stampa quando si scrive di femminicidio. Evitare frasi fatte che banalizzano e non spiegano, come “omicidio passionale”, aiuta, infatti, a far capire meglio la portata del fenomeno. Sottolineare negli articoli le denunce e i maltrattamenti che hanno preceduto il delitto, senza parlare, in modo facile, di “raptus”, sposta l’attenzione su un fattore chiave: il femminicidio spesso è solo l’ultimo grado di un climax, e raramente è frutto di un momento d'ira incontrollata. I dati della Casa delle donne dimostrano, infatti, che quattro donne su dieci – un dato che si ritiene sottostimato – hanno subìto abusi prima di venire assassinate. Questo accende un faro sulla prevenzione: è possibile fermare la violenza, dicono le autrici del dossier, “destinando risorse ai centri antiviolenza, rafforzando le reti di contrasto ad essa tra istituzioni e privato sociale qualificato, perché sempre più donne possano sentirsi meno sole e superare la paura”.
IL FENOMENO – Nel dicembre 2012 l’Eures, in collaborazione con l’Ansa, ha pubblicato un’indagine sul fenomeno del femminicidio negli ultimi dodici anni (dal 2000 al 2011). Dai numeri emerge un crescendo del fenomeno negli ultimi anni (dal 2009 in poi) che raggiunge nel 2011 il record del 30,9% degli omicidi totali: un omicidio su tre è rosa. Tra i femminicidi censiti nel decennio in analisi, ben il 70,8%, cioè 1.459 casi, è avvenuto nell’ambito di relazioni familiari o affettive. Praticamente sette donne su dieci vengono uccise in famiglia. Questa caratteristica è costante, con piccole oscillazioni, per tutto l’arco di tempo preso in considerazione: nel 2011, il 70,6% dei femminicidi è stato in famiglia. Più della metà dei carnefici (66,3%) sono coniugi, partner, ex partner. Gli assassini tendenzialmente vivono con la donna che uccidono (nel 41,6% dei casi censiti erano conviventi), mentre il 17,6% sono ex coniugi o ex compagni; c’è anche un 7% che ha ucciso l’amante con cui non ha mai convissuto. Quasi la metà degli omicidi compiuti dagli ex avviene nel lasso di tempo dei primi tre mesi dopo la rottura della relazione. Ma in oltre cento casi l’omicidio è scaturito dalla sola intenzione di interrompere il legame. Secondo il dossier “l’abbandono è un tarlo”. Che si rinnova a fronte di nuovi eventi (nuovo partner della ex, formalizzazione legale della separazione, affidamento dei figli). La percentuale dei femminicidi scende all'11,8% tra i 90 e i 180 giorni dalla separazione, per risalire al 16,1% nella fascia temporale compresa tra 6 e 12 mesi, al 14,9% in quella tra 1 e 3 anni ed al 6,2% in quella tra 3 e 5 anni, dove giocano un ruolo rilevante le decisioni legali ed i tentativi di ricostruire nuovi percorsi di vita. Soltanto il 3,7% dei femminicidi nelle coppie separate avviene dopo 5 anni dalla separazione.
Sono di più i figli che uccidono le madri (176 vittime, pari 12,1%) dei padri che uccidono le figlie (124 vittime pari all'8,5%). Tutti gli altri tipi di relazione hanno tassi di incidenza molto più bassi, con valori pari al 2,5% per le sorelle, all'1,9% per le suocere e all'1,1% per le nonne. Uscendo dai contesti strettamente familiari, l’indagine ha rilevato 91 casi (il 4,4% del totale) in cui l'assassino è un amico o un conoscente, 49 femminicidi nei rapporti di vicinato (2,4%) e 29 nei rapporti economici (1,4%). Consistente è poi il numero di prostitute uccise nell’ultimo decennio: 148 vittime.
IL TARGET: TRA I 25 E I 54 ANNI – Oltre metà dei femminicidi dell’ultima decade hanno interessato questa fascia d’età. Giovani donne e madri. In termini assoluti il più alto numero di vittime si ha tra le ultrasessantaquattrenni: 472 nell'intero periodo, pari al 22,9% del totale. Tuttavia le donne in quella fascia d'età sono più numerose: infatti l'indice di rischio medio annuo è pari a 5,9 donne uccise ogni milione di residenti della stessa fascia di età, decisamente inferiore alle altre. Il valore più alto è nella fascia 25-34 anni (7,2 femminicidi per milione di residenti), seguita dalla fascia 35-44 anni (7,0 vittime per milione di residenti), e da quella 18-24 anni (con un indice di 6,9 e 182 vittime censite). Sono infine 130 le minorenni uccise in Italia tra il 2000 e il 2011 (85 nella fascia 0-10 anni e 45 nella fascia 11-17), con un indice di rischio (2,2) decisamente inferiore a quello di tutte le altre fasce di età (5,7 il valore complessivo).
LA GEOGRAFIA – Tra il 2000 e il 2011, continuano Eures e Ansa, ci sono stati complessivamente 2.061 femminicidi: la metà di questi casi, 728 donne uccise, cioè il 49,9% del totale, si è rilevata nel nord Italia, un 30,7% di casi sono al sud e il 19,4% al centro. In termini di incidenza sulla popolazione la prerogativa del nord si conferma: qui, infatti, ci sono 4,4 vittime ogni milione di donne residenti, contro una media-paese di 4 (al sud è 3,5). Scendendo a livello regionale il rapporto Eures-Ansa individua nella Lombardia la prima regione per numero di numero di femminicidi (251, cioè il 17,2%), seguita dall'Emilia Romagna (128 e 8,8%), dal Piemonte e dal Lazio (entrambe con 122 vittime nei 12 anni considerati, pari all'8,4% del totale). Osservando tuttavia l'incidenza sulla popolazione femminile, è il Molise la regione più violenta, con 8,1 femminicidi medi annui per milione di residenti (16 casi); seguono la Liguria (6,1), l'Emilia Romagna (4,9), l'Umbria (4,8 con 26 femminicidi), il Piemonte (4,5) e la Lombardia (4,3).
LA CONVENZIONE – Lo scorso 19 giugno è stata ratificata da Camera e Senato la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne. La Convenzione è stata approvata dal Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 ed è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di protezione dei diritti della donna contro ogni forma di violenza. Dallo scorso giugno, dunque, la Convenzione è legge anche in Italia: lo scopo è quello prevenire atti di violenza, proteggere le vittime e perseguire gli aggressori, oltre che riconoscere una volta per tutte la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani. È composta da 81 punti alcuni dei quali riguardano anche la protezione dei bambini testimoni di violenza domestica, la penalizzazione dei matrimoni forzati, delle mutilazioni genitali femminili e dell’aborto e della sterilizzazione forzata. Tuttavia perché la Convenzione sia effettivamente vincolante è necessario che gli Stati firmatari varino una legge d’attuazione che possa coprire finanziariamente e concretamente gli interventi di prevenzione e sostegno.
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