“L’altalena del respiro”, di Herta Műller, I Narratori, Feltrinelli
“L’altalena del respiro”, di Herta Műller, ha la forza di un macigno.
Non è facile da leggere e alle prime battute, ancora nelle pagine successive, ti viene voglia di lasciar perdere. Perché le frasi appaiono ripetitive, così gli elementi del racconto.
Poi, lentamente, ti accorgi che ad ogni “ripetizione” si aggiunge qualche cosa che prima mancava e le immagini diventano più nitide, più coinvolgenti finché non riesci più ad abbandonare il filo di quel racconto.
E quando ci sei dentro non puoi fare a meno di sentire la fame, la vera, grande, insopportabile presenza che incombe su tutto il romanzo, in compagnia del male umano, delle sofferenze subite o inflitte, delle speranze e dei sogni calpestati in una realtà fatta di pesi insopportabili, di maltrattamenti fisici e psicologici, di un’ umanità fantasma con una sua vita strisciante nell’orrore.
Il periodo cui si riferisce il romanzo è quello del 1945 quando, per ordine del regime sovietico, inizia la deportazione della minoranza rumeno-tedesco nei campi di lavoro forzato.
“Tutto quello che ho lo porto con me. Oppure tutto quello che è mio me lo porto appresso. L’ho portato tutto, quello che avevo…C’era ancora la guerra, nel gennaio 1945. Nel terrore che in pieno inverno dovessi andarmene chissà dove dai russi, ciascuno volle darmi qualcosa che potesse essere utile, quando ormai non c’è più niente che serve. Visto che nulla al mondo poteva servire. Visto che stavo sulle liste dei russi, irrevocabilmente, e ognuno mi dava qualcosa e aveva la sua idea in testa. Io la prendevo e a diciassette anni pensavo che questo andarmene stesse arrivando al momento giusto. Non doveva essere per forza la lista dei russi, ma bastava che non finisse troppo male che per me era persino un bene. Volevo andarmene via da quella cittadina angusta come un ditale, dove tutti i sassi hanno occhi.”
Uscirà, da quest’inferno l’ingenuo Leopold Auberg, il protagonista, che per sfuggire all’angustia della vita di provincia, sceglie, senza troppo riflettere, di partire per un campo di lavoro forzato in Ucraina.
L’incoscienza giovanile e la sua voglia di sperimentare nuovi percorsi, si spenge lentamente e inesorabilmente nel corso di quei cinque terribili anni, tanto durerà quella terribile esperienza. Si scontrerà con la fame e il freddo, la fatica estrema e la morte quotidiana.
Il giovane Leopold lotterà per una patata afferrata con l’aiuto dell’ “angelo della fame”, sempre presente al di sopra di quel luogo; lotterà contro i pidocchi che lo tormenteranno ogni minuto di quegli anni “Presto cominciò a prudermi dappertutto il pidocchio della testa, il pidocchio del collo e della nuca, il pidocchio delle ascelle e quello del petto, il pidocchio dei peli del pube”.
La Műller ci suggerisce come anche la continuità del male possa divenire noia, quella del suo ripetersi inesorabilmente.
“Sono stanco e non ho voglia di avere nostalgia folle di qualcosa…C’è la noia del sole, quando il legno secca e la terra diventa più fine della ragione nella testa, quando i cani da guardia sonnecchiano anziché abbaiare. E prima che l’erba sia completamente morta di sete il cielo si chiude, e allora c’è la noia in fondo ai fili di pioggia…c’è la noia della neve caduta insieme alla polvere di carbone…alle bucce di patate…la noia dei tubi sgocciolanti, c’è la noia della neve vischiosa che va pazza per gli esseri umani, che si condensa sugli occhi e brucia le guance”.
Una convivenza difficile quella del lager; si rubano patate, per fame, per scambio, per abitudine…e la fame, sovrana assoluta, macera il corpo e la mente, distrugge ogni legame.
Paul Gast ruba il pane alla moglie “Nella mensa si vedeva quotidianamente quello che l’angelo della fame fa di un matrimonio. L’avvocato cercava sua moglie come un guardiano. Quando già si era seduta in mezzo ad altri al tavolo lui la tirava per il braccio e metteva la zuppa di lei accanto alla sua. Non appena lei distoglieva lo sguardo un istante lui immergeva il suo cucchiaio nel piatto della moglie. Quando lei se ne accorgeva, lui diceva: Un cucchiaio qui, un cucchiaio là.” “La nuda verità è che l’avvocato Paul Gast rubava la zuppa dal piatto della moglie fin quando lei non si alzò più in piedi e morì perché non poteva far altro, così come lui le rubava la zuppa perché la sua fame non poteva far altro…”.
Ritorna a casa il giovane Leopold, dopo sette anni “senza nostalgia”.
E il ritorno non potrà abbandonare né esser abbandonato dall’angelo della fame né dai miseri protagonisti che hanno condiviso quegli anni nel lager: “Di notte, da sessant’anni, cerco di ricordarmi gli oggetti del Lager. Sono il contenuto della mia valigia notturna. Dal mio ritorno a casa la notte insonne è una valigia di pelle nera. E questa valigia è nella mia fronte”.
Scritto anche grazie alle testimonianze e i ricordi dei sopravvissuti, in primo luogo del poeta rumeno-tedesco Oskar Pastior, il racconto si svolge con una scrittura dura e poetica insieme, scarna e metaforica, reale e nello stesso tempo surreale: “Fondato sulla realtà del Lager, intessuto dei suoi oggetti e della passione, quasi dall’ossessione per il dettaglio quale essenza della memoria e della percezione, “L’altalena del respiro” è un potente testo narrativo, una grande opera letteraria”.
Herta Műller, premio Nobel per la letteratura nel 2009 con la seguente motivazione: “Ha saputo descrivere il panorama dei diseredati con la forza della poesia e la franchezza della prosa”.