Sentenza 15 maggio 2015
Condannato il datore che resta inerte di fronte alle vessazioni imposte a una dipendente dal superiore gerarchico La durata e le modalità della condotta lesiva possono far ritenere provata la conoscenza della situazione che il Comune ha l’obbligo di far cessare immediatamente
Condannato per mobbing anche il Comune o l'impresa che resta inerte di fronte alle vessazioni imposte a una dipendente dal superiore gerarchico. Il datore di lavoro, infatti, una volta a conoscenza della situazione ha l’obbligo di intervenire immediatamente per far cessare la situazione e tutelare la propria lavoratrice.
Sono questi i principi seguiti dalla sezione lavoro della Cassazione nella sentenza 10037 di oggi che ha confermato la condanna, in solido, al risarcimento del danno per mobbing inflitta a un Comune e a un suo dipendente autore materiale delle vessazioni.
I giudici di merito avevano accertato che alla vittima erano state sottratte delle mansioni, era stata emarginata e spostata senza plausibili ragioni da un ufficio a un altro ed era stata subordinata a quello che prima era un proprio sottoposto. Non solo. La perizia redatta in sede penale da un esperto evidenziava che nella vicenda lavorativa della donna trovavano riscontro tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing che sono l’ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento secondo fasi successive e l’intento persecutorio.
La pronuncia della corte d’appello è stata quindi impugnata in Cassazione da entrambe le parti. L’autore materiale delle condotte lesive ha contestato le conclusioni dei giudici di merito sostenendo che le risultanze processuali non facevano emergere una fattispecie riconducibile al mobbing, ma la Suprema corte ha respinto il ricorso sostenendo che dai testi escussi e dalle conclusioni della perizia effettuata emergeva con chiarezza che il comportamento posto in essere dal superiore gerarchico della vittima costituiva un classico episodio di mobbing.
L’ente locale ha invece contestato le conclusioni della corte d’appello perché a suo dire non avrebbe motivato sulla responsabilità del Comune.
La Cassazione, nel respingere anche questo motivo di ricorso, ha affermato che il Comune non poteva essere scriminato dal danno alla lavoratrice solo perché la condotta di mobbing proveniva da un altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima. Infatti, ha concluso la Corte, non è possibile escludere la responsabilità del datore di lavoro ove questo sia rimasto “colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo”, senza contare poi che “la durata e la modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l’ha comunque tollerata”.