Intervista del 10/10/2022
– Nel mercato del lavoro i protagonisti sono sempre due, il lavoratore e l’impresa.
Rispetto alla garanzia che quest’ultima risponda ai principi di parità previsti nel PNRR, come è possibile vigilare sul pieno rispetto delle normative previste?
Il PNRR ha individuato una serie di missioni e di misure che servono a fare crescere la presenza femminile nel mercato del lavoro in aderenza all’Agenda ONU 2030, indicando gli strumenti per realizzare l’obiettivo. Per quanto attiene alle condizioni di lavoro, una delle misure – la numero 5, intitolata “Coesione e inclusione” – è diretta a valorizzare l’imprenditoria femminile e a regolare un sistema di certificazione della parità di genere che operi a livello nazionale. Il sistema di certificazione è chiaramente diretto a consentire la trasparenza dell’azione degli operatori del mercato, privati e pubblici. Il meccanismo della certificazione che comporta la necessità di verificare, cioè misurare attraverso indicatori le azioni svolte all’interno dell’organizzazione, indica un approccio che supera la prospettiva meramente sanzionatoria in caso di specifico abuso. La certificazione è diretta a evidenziare, a fare emergere comportamenti, prassi e atteggiamenti non coerenti con quelli indicati dal PNRR in materia di parità e inclusione, attraverso un’analisi statistica dettagliata, e non comporta la necessità della denuncia da parte del singolo. La tecnica in oggetto può risultare più efficace sia per promuovere la funzione voice dell’opinione pubblica o del sindacato – di chi osserva cioè l’attività dell’imprenditore dall’interno o dall’esterno – ma può rendere più agile anche la reazione delle istituzioni che già esistono e che hanno la funzione di garantire la parità di genere nel lavoro.
– Non ritiene che non bastino delle “linee guida” perché le aziende si adeguino a questo principio, perché diventi realmente un loro obiettivo?
Dipende cosa si intende per linee guida. Il sistema di valutazione per la certificazione delle aziende sul piano della parità di genere è oggi definito da un documento della Presidenza del Consiglio dei Ministri intitolato Prassi Uni/Pdr 125:2022, in vigore dal 16 marzo 2022 in coerenza con quanto stabilito dal Regolamento europeo n. 1025/2012. La Prassi contiene istruzioni che comportano una valutazione analitica dell’organizzazione del lavoro in azienda con l’assegnazione di punteggi in relazione al soddisfacimento di criteri di azione molto dettagliati.
– Dettare disposizioni e parametri è più facile che farli attuare o rispettare. Gli ambiti d’intervento su cui le imprese dovrebbero intervenire prevedono maggiori possibilità di avanzamento di ruoli per le donne; un riconoscimento di reddito pari a quello degli uomini e una maggiore formazione che livelli le competenze; l’uso dello smart working. Questioni che sono state poste da molto tempo prima del PNRR. Per quale motivo le imprese dovrebbero oggi realizzare ciò che non hanno fatto nel passato?
Il gap salariale tra uomo e donna dipende da diversi fattori e non è direttamente connesso all’appartenenza di genere ma anche alle scelte di vita che, in un dato contesto sociale, le persone appartenenti a un genere effettuano per ragioni culturali o per l’assenza di istituzioni di supporto diverse dalla famiglia. L’assenza dal lavoro per lunghi periodi, dovuta al lavoro di cura, incide infatti indubitabilmente sull’evoluzione della carriera e quindi anche sui salari. La società, però, sta cambiando anche sotto l’influenza dell’adozione di norme che incentivano la condivisione del lavoro di cura. Il lavoro agile può essere inoltre una soluzione che consente di conciliare il lavoro con il carico di cura che proporzionalmente grava ancora in maggiore misura sulle donne lavoratrici.
– Come per tutte le novità, sono previsti tempi sperimentali?
La certificazione, come si diceva, sta andando a regime e, d’altro canto, più in generale, è sotto gli occhi di tutti che il diritto non vive più nella presunta immutabilità ma segue processi continui di adattamento. Siamo assoggettati a regole che, sebbene vincolanti nel momento in cui sono in vigore, sono anche sperimentali nel senso che sono oggetto di continua valutazione e adattamento in relazione all’impatto che producono e ai cambiamenti repentini delle politiche.
– Chi è preposto al rispetto delle nuove normative? Non pensa che dovrebbe essere costituito un tavolo di monitoraggio e di raccolta dati presso il Ministero del lavoro?
La certificazione è chiaramente utile anche alla raccolta di dati che servono al monitoraggio delle situazioni concrete e che possono consentire, sulla base di valutazione statistiche a più ampio raggio, a programmare interventi funzionali al raggiungimento degli obiettivi di parità e inclusione. Non si deve però dimenticare che la certificazione viene effettuata ad iniziativa dell’impresa.
Per il monitoraggio in generale della situazione in materia di parità uomo donna nelle aziende pubbliche e private la legge prevede altri strumenti. Non bisogna dimenticare che entro il 14 ottobre le pubbliche amministrazioni e le imprese con più di 50 dipendenti, a prescindere dalla certificazione di cui dicevo e di recente introdotta dalla legge, hanno invece il vero e proprio obbligo, sanzionabile, di presentare il rapporto biennale relativo al personale maschile e femminile occupato, prendendo in considerazione “in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni” la formazione, la promozione professionale, i livelli, i passaggi di categoria o di qualifica, gli altri fenomeni di mobilità, l’intervento della Cassa integrazione guadagni, i licenziamenti, i prepensionamenti e pensionamenti, la retribuzione effettivamente corrisposta”, come recita l’articolo 46 del Decreto legislativo n. 198 del 2006. La normativa introdotta dal PNRR ha rafforzato tale adempimento proprio rendendo più specifici i dati da comunicare, dati che in precedenza potevano essere aggregati. Ora, a seguito delle modifiche introdotte, sarà più semplice, per gli organismi di parità già esistenti sul territorio, individuare possibili situazioni di squilibrio o discriminazione collettiva.
– Le aziende virtuose nel merito quali benefici potranno trarre dalla certificazione?
Uno dei profili più interessanti della certificazione sta proprio nell’ottica incentivante e non meramente punitiva per le imprese. I vantaggi si trovano sul piano della riduzione degli oneri contributivi e nella maturazione di un punteggio di merito valido per la partecipazione a bandi e gare pubbliche.
– Per avviare queste norme in modo permanente dovrebbe svilupparsi una visione d’ insieme di genere aziendale. Queste norme sono sufficienti, secondo lei, per riuscire a cambiare le abitudini e le consuetudini all’interno del mondo del lavoro anche dal punto di vista culturale?
Così come sta accadendo per le questioni climatiche e per la pandemia, a volte, eventi inaspettati portano a rivoluzioni significative nel modo di vivere della società. Certamente l’idea di sostenibilità che non è solo ambientale, rispetto alla quale siamo divenuti più sensibili anche in relazione agli eventi sopra menzionati, non può che accelerare l’integrazione delle donne nella società e nel mercato del lavoro, dato che l’integrazione nel mercato del lavoro dei gruppi sotto rappresentati è un profilo della sostenibilità sociale.
– Come si può ottenere la Certificazione della parità di genere?
Le modalità sono chiarite dal documento della Presidenza del Consiglio dei Ministri intitolato Prassi Uni/Pdr 125:2022, in vigore dal 16 marzo 2022 in coerenza con quanto stabilito dal Regolamento europeo n. 1025/2012 che individua anche le modalità per la costituzione dei gruppi di verifica nell’ambito dei quali devono essere presenti esperti di diritto del lavoro e di tecniche di valutazione e di audit.
– A suo parere questo strumento troverà gradimento?
Penso che gli incentivi contributivi e, in senso lato, economici potranno favorirne l’adozione. Anche il profilo reputazionale per l’azienda che adotta la certificazione ha un ruolo significativo sul piano del marketing e può indurre le imprese ad avvicinarsi a un processo di valutazione che serve a promuovere la loro immagine tra gli utenti consumatori, senza considerare che il processo di valutazione può evidenziare limiti o incongruenze dell’organizzazione aziendale ed essere occasione per meditare sul perché di alcune scelte organizzative.
– Usciamo dal tema! La nuova edizione della Enciclopedia Treccani, che “è lo specchio del mondo che cambia prevede un cambiamento delle parole che devono rispettare i cambiamenti sociali del linguaggio. Gli stereotipi di genere passano infatti anche nell’uso che si fa delle parole. Da qui l’inserimento delle forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile”. Cosa ne pensa? E lei, come dobbiamo chiamarla?
Mi piace pensare che la lingua debba evolversi da sé senza forzature da parte di nessuno, a meno che non risulti offensiva o degradante nei confronti di soggetti o categorie specifiche. In questo periodo di transizione culturale, non ritengo indispensabile declinare al maschile ogni termine se riferito a una donna. Trovo invece scorretto imporre la forma femminile quando non gradita dalla persona che la subisce, come ad esempio chiamare professoressa chi voglia sentirsi chiamare professore, termine che rappresenta una qualifica specifica in ambito universitario.
*Adriana Topo, professore ordinario di Diritto del Lavoro, Dipartimento di Diritto Privato e di Critica del Diritto, Università di Padova.