“La pazza gioia” di Paolo Virzì.
Questo simpatico film, per chi ama il cinema un po’ alternativo a quello tradizionale, ovvero narrativo e didascalico e a tratti intelligente, è “diverso” per il tema che tratta, che parla di donne e delle loro follie d’amore.
Cioè a gente come me che quando vide un film come questo, nell’ ormai lontano 2016, pensò: che bel film sulla solitudine e sul disagio mentale femminile. La trama in sintesi è quella che riguarda la fuga di due donne che risiedono in una comunità terapeutica.
Beatrice ha sofferto per uno scompenso psicotico causato dall’ abbandono del marito, la conseguenza di un brutto divorzio insomma. L’ altra donna, Donatella, più giovane di Beatrice ma con la stessa tragedia interiore a causa di quanto le era accaduto. Cosa di preciso? Era stata colpita da una depressione post-partum e consumando ogni energia mentale accanto al figlio, mai riconosciuto dal padre-compagno, dimenticandosi di se stessa.
Le due donne hanno in comune la voglia di scappare da quel luogo “chiuso” per andare verso la realtà quotidiana, “vera e aspra” ma sempre più eccitante della comunità terapeutica psichiatrica a cui sono entrambe approdate. Affittano un’ auto e in quel viaggio ripercorrono ed esprimono ciscuna, tra risate, discorsi di narrazione interiore e una ritrovata possibile libertà, il dolore a chi il dolore l’aveva vissuto in maniera simile.
Come quasi in una terapia di gruppo, ma in coppia di fatto!
Infatti il senso di comunanza e di condivisione, quando si aggiunge alla autocoscienza, in questi momenti di apertura alla sofferenza, è al massimo se vicino a te c’ è qualcuno che ti assomiglia.
Non devo commentare il film come un recensore autentico, ma il finale è buonista e fatto per sognare in modo leggero ma a tratti realista. Infatti è così per Beatrice almeno che rientra in comunità convinta di fare la cosa migliore. Donatella fa pace con la separazione dal figlio da cui l’ hanno strappata comprendendo che sia stata la cosa più giusta da compiere.
Il mio commento psicologico verte sul proporvi delle questioni sotto forma di domande:
come ama una donna, il suo dolore è più forte, o diverso da quello di un uomo? Perché se un uomo fa tanto soffrire una donna, lei non si emancipa da lui e continua in modo perverso a cercare la sua presenza? Perché, come nel caso di Donatella, noi madri abbiamo la priorità dei figli e non di noi stesse?
Se cercassi di rispondere a questi quesiti, mi verrebbe solo da porre altri dubbi, quali:
l’ uomo allora ha un vero potere profondo, una vera dominanza rispetto alla personalità femminile? Certo è che questa dominanza maschile è già creata da una cultura del dominio, ma generalizzata, frutto di patriarcato tradizionale e parente della schiavitù femminile e non solo, che autorizza anche il potere di sfruttare chi non sceglie la propria condizione. Come nel caso di Beatrice, sposata ma già convivente da un po’.
Forse perché non è una donna che si soggettiva in modo autonomo dal marito, trova magari una fonte troppo grande di protezione e riparo anche dalle sue ubbie e lamentele, dai suoi pensieri negativi e disagi mentali vari, forse discreto conforto nell’ ascolto che le riserva il compagno. Chi è infatti l’ ipotetico uomo di Beatrice ? Un uomo così magari, razionale e intelligente ma che può abbandonare la propria donna per svariate ragioni. Come tutti, come tutte… E Beatrice, attaccata spasmodicamente a lui, crolla.
Qual’ è la forza di un uomo e la fragilità femminile? Forse l’ uomo non sottomette solo con la pura violenza ma è deciso e determinato, a tratti duro (ah, quanto costa ad una donna sentire questa durezza!), con un’ indipendenza di carattere, una solitudine di guerriero che libera sé stesso dalle catene della dipendenza affettiva, dall’ essere Uno senza esserlo veramente con l’ altra metà, soprattutto, perché è difficile accettare la diversità femminile.
Alla fine delle domande trovo bello fare invece una apertura sulla questione di Donatella, che non vede il figlio amato fino in fondo dal padre. Già, il fatto che non glielo abbia riconosciuto non è solo una questione legale. E’ mentale, psicologica, un amore simbolicamente a metà. E Donatella crolla anche lei, vorrebbe vedere invece il suo piccolo, amato dal padre, il compagno con cui lo ha concepito.
Chi avrà dato, chi avrà scelto il suo nome, per esempio? Solo la madre? Ma un figlio è il frutto dell’ amore di una coppia!
E poi, in ultima analisi, ci si deprime perché non si fa di noi stesse il perno dei nostri interessi, un ideale da compiere. Donatella perde la sua serenità perché i sentimenti di solitudine e disperazione si affollavano in un rimuginio violento, senza sosta, in una torre senza uscita, senza fine, pensandosi anche lei abbandonata in un momento così delicato.
Che dire del film, alla fine, in una conclusione che vede le comunità terapeutiche come luoghi di pena e non di vera cura. Franco Basaglia soffrirebbe autenticamente vedere come l’ istituzione psichiatrica ha risolto questa questione, del dolore e della sua accoglienza.
Tuttavia il film è carino e ricorda a tratti il datato (1991): “Thelma & Louise”, film che racconta di due donne che scappano di casa questa volta, perché stanche dell’ alienazione casalinga, carenti di vera voglia di divertirsi e di vivere, che ritroveranno in un viaggio “pazzo” con un’ auto decapottabile, insieme, con gioia.