Arriviamo al 25 novembre con un nuovo clima sociale nel Paese in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin. Un balzo nella presa di coscienza sulla violenza maschile contro le donne. Un po’ per la dolce normalità di vita di Giulia, un po’ per la lucida forza, nel dolore, della sorella Elena. Ma ora dobbiamo capire che per risolvere il problema non basteranno solo misure specifiche contro la violenza, per quanto utili. Va sradicata la causa, l’asimmetria di potere da cui nasce la violenza.
Primo: parliamo di uomini:
Gli uomini non sono vittime del patriarcato come le donne, anche perché molti usufruiscono dei privilegi che offre in termini di potere, e non solo, sul posto di lavoro, in famiglia, nella società. Ma gli uomini non sono tutti uguali e neanche in maggioranza autori diretti di violenza efferata contro le donne. Quale è il problema? Molti la sottovalutano, ne diventano trasmettitori a volte inconsapevoli, con una complicità che sa di connivenza, contribuendo attivamente, o passivamente, alla creazione di quell’humus subculturale da cui la violenza germina. Il potere maschile patriarcale, in tutte le sue esternazioni, va definito con il suo nome, va denunciato, va svelata la miseria di chi nasconde la sua debolezza dietro crudele maschera patriarcale. Troppi uomini ancora si aggrappano a questo residuo ereditario quale unico potere che riescono a concepire in un’epoca di incertezze come la nostra. Gli uomini che si sentono diversi dagli altri potrebbero cominciare a rendersi protagonisti della battaglia contro il maschilismo diffuso, se davvero vogliono che figlie, sorelle, madri, compagne possano vivere in serenità e libertà. Se vogliono che non siano vittime del Turetta di turno: non un alieno, un mostro, ma la fotocopia di tanti che rivendicano il possesso dei corpi delle donne, che magari non arrivano al punto di uccidere, ma che esercitano violenza psicologica e controllo.
Secondo: parliamo di donne.
Chi deve porsi alla testa di percorsi di autodeterminazione sono le donne, siamo noi che dobbiamo ridefinire nuove regole del vivere civile. Dobbiamo averne consapevolezza e forza. La nostra e una battaglia contro la cultura espressa dal potere maschile che si basa sulla asimmetria di genere, uno squilibrio non più tollerabile. Per vincerla dobbiamo essere forti, e costruire la “sorellanza organizzata”.
Tutte unite, a prescindere dalle parti politiche o sociali, perché stiamo parlando della difesa dei diritti universali dell’umanità, nonché dello sviluppo civile, sociale ed economico del nostro Paese. Gruppi di donne capaci di diventare riferimento per le altre, di (fusi in modo capillare nelle scuole, nei posti di lavoro, nei quartieri, che si supportino a vicenda e agiscano da moltiplicatrici di creatività e forza. Mettiamo al centro ciò che ci unisce e non ciò che ci divide. E soprattutto, aiutiamoci nel riconoscere i segnali della violenza, combattendo la cultura del possesso e la catena delle sottovalutazioni, non ultima quella delle forze dell’ordine, emersa, secondo prime testimonianze, anche nel caso di Giulia. La nostra deve essere una battaglia larga, per l’autodeterminazione e perii potere.
Terzo: parliamo di politiche pubbliche.
L’Istat ha recentemente diffuso dati sull’immagine della violenza. Ebbene il 39,3% degli uomini nega l’esistenza della violenza sessuale. Ritiene che, “se una donna non vuole, è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale”. Il 19,7% pensa che “le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire”. Inoltre, un 16% di giovani ritiene sia accettabile che “un uomo controlli abitualmente il cellulare o i social della propria compagna”. Sono dati preoccupanti, espressione di una cultura del possesso assai diffusa e del giustificazionismo della violenza sessuale. Va sradicata ma non è semplice.
Tutti gli agenti di socializzazione, dalla famiglia alla scuola, sembrano aver fallito su questo fronte. Per combattere la cultura maschile del dominio bisogna investire qualitativamente e quantitativamente. E non si può fare a costo zero. Fin dai primi anni la scuola è un terreno fondamentale, ma non è l’unico.
La qualità dei formatori e i contenuti della formazione sono cruciali. La formazione deve essere permanente, fin dall’infanzia. Va offerta anche agli adulti in posizioni cruciali, come docenti, giornalisti, psicologi, pubblicitari. Ma non basta. La violenza sulle donne è la spia di un problema macroscopico, la disparità di genere. La metà delle donne italiane non lavora, è alto il rischio di dipendenza, non potersi sottrarre alla violenza. La svolta è tutta qui. Serve una rivoluzione nelle politiche che metta al centro le donne, finalmente investendoci, non solo facendo chiacchiere. Serve smantellare questa drammatica asimmetria di genere nella famiglia, nel lavoro, nella società, nel potere. Urge sanare, una volta per tutte, la disparità di diritti dei cittadini italiani che hanno la sorte di nascere femmine.
la Repubblica, 24 novembre 2023