Karima, ovvero il disagio mentale nell’immigrazione

da | Lug 31, 2022 | Testimonianze e contributi

“L’inizio di ogni saggezza consiste nel perdonare agli altri di essere diversi da noi. (proverbio cinese)”.

Parlare di famiglia, significa parlare della prima agglomerato di società. La famiglia che ho in mente aveva un tratto: erano immigrati. Quindi provenienti da un’altra società, quella algerina. Le statistiche mostrano chiaramente che gli USA  hanno il più alto numero di immigrati, seguiti dalla Russia e dalla Germania, che chiedono ospitalità per motivi vari: politici, perché fuggono da realtà di guerra che riguardano le loro terre natie, di origine, motivi economici, legati alle condizioni socio-economiche di riferimento.

Negli USA c’è stato il fenomeno della costruzione di frontiere, come quella con il Messico, con cui hanno voluto bloccare il flusso di clandestini provenienti dal sud America, anche se questa è una conseguenza di una politica anti-democratica che concerne praticamente il governo Trump, ormai passato, ma non del tutto dimenticato.

In Germania c’è stata una politica invece di accoglienza e di utilizzo degli immigrati come utile ed effettiva forza-lavoro, elaborando un sistema di riconoscimento del “diverso”, dello “straniero”, come il proverbio che ho citato all’inizio, che cerca di andare oltre lo scontro frontale contro chi fa paura solo perché appartiene ad una cultura e una religione diversa, con una lingua differente, ma cogliendo il lato arricchente della multiculturalità, in rapporti di interscambio culturali.

In Italia, purtroppo, oltre ad una mentalità di ostracismo profondo, che persiste dal fascismo, troviamo una serie di personaggi politici che hanno voluto deviare il destino di clandestini, ovvero futuri immigrati, cercando di farli morire in mare, come si evince in modo chiaro ma mostrando la conflittualità.

E’ successo in questi 20-30 anni nel Mediterraneo. L’apice è avvenuto con l’avvenimento che ha visto Carola Rackete, capitano di una nave tedesca, la Sea Watch, salvare dalla morte sicura centinaia di persone circa due anni fa, nel Mediterraneo, ormai cimitero di uomini e donne che scappano e trovano la morte qui in Italia per motivi politici anche qui.

Nella vita professionale svolgo il mestiere di psicoterapeuta. Grazie ad un medico di base, collaboratore mio  professionale, che sii era preso a cuore la situazione complessa del nucleo familiare,  circa 9 anni fa ho ricevuto per circa 6 mesi un caso di una bambina e con lei, la sua famiglia algerina. Quando ho incontrato Abdul, suo padre, ascolto l’insoddisfazione e la rabbia del rifiuto nell’essere accolto. Mi fa un elenco proprio il primo incontro, parlandomi di come era difficile lavorare, lui aveva qualche soldo da parte, ma secondo lui il sistema economico italiano non favoriva la libera iniziativa imprenditoriale, aveva avuto parecchi problemi ad aprire l’esercizio con la partita iva, per aprire un’attività in proprio. Inoltre, ma non in modo secondario, Abdul lamentava che la difficoltà che aveva la figlia Karima (il cui nome in arabo significa”generosa”) era stata totalmente non presa in cura presso lo Uonpia, unità di neuropsichiatria infantile di città, a Monza, perché avrebbero atteso l’appuntamento con tempi di attesa di 6 mesi, c’era stato anche un trattamento in Day-hospital, ma che non aveva risolto nulla e, per un disturbo nell’età evolutiva erano eccessivi, Karima non interagiva più con i suoi pari e con gli altri, esclusivamente in modo inadeguato con i genitori, come un disturbo pervasivo dello sviluppo, ma fuori tempo … Eh sì, l’autismo emerge dopo un anno e mezzo, fino a tre anni di vita, lei aveva cinque anni, ma comunicava pochissimo da tempo. Procrastinare la sua cura era sbagliato secondo la famiglia, anche secondo Amina (il cui nome in arabo significa: che dice la verità), una donna dall’espressione del viso triste e profondamente cupa.

Negli altri incontri avevo indagato sul desiderio di riconoscere, di accettare e essere accettati e come stare in Italia da parte loro. Abdul e Amina avevano un’idea di rigettare i disvalori incontrati in Italia, che avevano raggiunto per una questione di bisogni di sopravvivenza, non di scelta di vita. Di moschee, per pregare, non ve ne sono qui a Monza e in Brianza.  Nessuno aveva dato loro un mediatore linguistico-culturale, nelle varie istituzioni in cui si imbattevano, come la scuola, gli uffici amministrativi, l’ospedale, con cui imparare la lingua italiana e “incontrare” meglio la cultura italiana, anche ad Amina, la madre, così poco socievole e restia ad avere una socialità indipendente, ma genitore di Karima e Jamal (il cui nome in arabo significa: “bellezza, attrattività”), figli che venivano educati con il linguaggio, anche simbolico, anche in modo migliorativo con un’altra cultura, quella italiana, ma espellente, a tratti. In questo caso il processo di “osmosi” culturale e linguistico da parte della famiglia algerina e la comunità italiana era veramente duro, difficile.

Il mio ascolto aveva rilevato certamente un dispiacere nel vivere ma con l’ascolto avevo cercato di ristabilire un desiderio più deciso, oltre la quotidianità deludente, volendo ristabilire nella coppia genitoriale una funzione simbolica rispetto ai figli.

Ad Abdul dissi che da lui, diffidente e astioso, dipendeva il pensiero della famiglia e che Amina era depressa, come lui, ma che dovevano essere responsabili di come procedeva il loro percorso in Italia, cercando, per quanto potessero, una motivazione personale valida o più ragioni, di stare bene adesso, comunque, in ogni caso, senza troppa rabbia, vedendo come un’opportunità di vita, e non solo di sopravvivenza l’interagire con gli altri, che sarebbero diventati una ricchezza umana inizialmente soprattutto di parola, di discorso, di scambio interculturale foriero di emozioni piene e intense, un incontro duraturo e significativo.

Decisi di fare un’osservazione e una riunione successiva a scuola. A scuola dell’infanzia di Nova M.se  accettarono di buon grado il fatto che ci fosse una riunione per questo caso, cosa proposta da me e accolta bene dai genitori.

E’ un’istituzione fondamentale la scuola, e dico tra me e me:” Speriamo che sia la volta buona, che la famiglia incontri un Altro significativo, un contesto sociale, degli altri, che li accettino in senso profondamente umano, li facciano sentire veramente accolti!”

Così fu… A scuola ho potuto osservare che Karima fosse al centro dell’interesse da parte di compagni e insegnanti, cercata per giocare e le maestre confermavano questo prendendosi cura della difficoltà di Karima. Queste pensavano che Karima poteva avere delle possibilità di essere socievole e parlare con tutti, loro e la classe erano disponibili. Questa potenzialità era nel  pensiero che avrebbe permesso che ciò potesse succedere.

Tuttavia la madre Amina disse: “ Mia figlia non parla con nessuna amichetta! Gioca da sola!”, con arie di sfida e polemica. Le maestre e io abbiamo affermato che le amichette in modo evidente cercavano il contatto con la figlia, glielo abbiamo dimostrato, tutto stava nel credere che ciò avvenisse.

Dopo qualche tempo, Karima ha incominciato a cercare gli altri e a ricambiare l’interesse mostratole, comunicando sempre meglio e di più. Abdul, il padre, era diventato più assertivo e meno diffidente. Amina, la madre, cercava di interagire in modo migliore, anche lei con una sua motivazione personale decisa, un desiderio di stare bene e riconoscere gli altri. Jamal, il fratellino piccolo, ha imparato l’italiano durante i pomeriggi primaverili, insieme ai suoi compagni di gioco presso i giardinetti vicino a casa, questo a dimostrare che la comunità italiana era stata d’aiuto e di cura anche per lui.

 Dr.ssa Paola La Grotteria – Psicoterapeuta