Lei vive sola e libera di Franca Romé, Duepiù 1974

da | Set 2, 2012 | Scritti d'archivio

 

Guardiamoci intorno: non c’è dubbio, nella vertiginosa trasformazione di usi, costumi, abitudini che coinvolge un po’ tutti al giorno d’oggi, una delle più sensibili riguarda i rapporti uomo-donna. Specialmente la donna, depositaria per tradizione della “caccia al marito”, sembra abbia decisamente cambiato rotta. Che aspiri piuttosto a una posizione nel lavoro, a una indipendenza economica, a una autonomia completa. E’ facile sentir dire da una ragazza, specie se molto giovane:”La famiglia così come è stata finora non funziona, la coppia chiusa è limitante, soffocante. Io non mi sposerò. Magari proverò a convivere. Tanto i matrimoni finiscono tutti…”
Ed è obiettivamente vero che succede qualcosa di simile. Se la parola “crisi” sembra ormai la più usata del nostro vocabolario e si parla di crisi di governo, degli intellettuali, delle casalinghe, dei valori, della religione, dell’economia, del petrolio, del traffico, delle poste eccetera, il maggiore consumo di questo termine riguarda la coppia. “Crisi della coppia” è una sorta di “leit-motiv” wagneriano per ogni tipo di analisi socio-psico-culturale sui rapporti uomo-donna. Anche a livello di esperienze personali non ci sono più amici o conoscenti che non si separino o, per lo meno, entrino in tale crisi da esserne molto vicini. Giovani e meno giovani, di qualunque condizione, due che si sono amati, oggi sembra non reggano più al tempo.
Ma allora, se le cose vanno tanto male in due, non dovrebbero andare meglio da soli? Logica ferrea, ma ” ciò che sfugge alla logica è quanto v’è di più prezioso…” scrisse Gide nel suo Diario : ed è vero.

Vediamo come può trovarsi a vivere una donna, nella nostra società, quando non si trova nella famosa e tanto discussa coppia. “Ma come”, obietteranno subito in tanti, “cosa impedisce a una donna di starsene benissimo per conto suo al giorno d’oggi? Cosa le manca? Non ha forse ottenuto gli stessi diritti dell’uomo?…?”
Una sottile invidia serpeggia sovente intorno a queste creature privilegiate da parte delle “mogli”, delle incastrate per eccellenza: quelle che gemono per i malumori del marito, le costrizioni degli orario, gli obblighi verso i figli. Quelle donne, insomma, per le quali liberarsi una volta per tutte dalla routine quotidiana sembra la chiave per aprire la porta magica della felicità o per scoprire l’elisir di lunga vita. Si sente commentare acidamente tante volte da queste mogli: “Beata quella! Sfido che sembra sempre tanto giovane!” Nell’incoerente proiezione di desideri frustrati la coniugata-casalinga spesso sogna a occhi aperti (e talvolta chiusi) questo paradiso in cui si muove una donna che vive da sola. Nubile, separata, divorziata, pseudolegata, non importa: possiede il grande bene dell’indipendenza. Può fare ciò che vuole, di sé, del suo tempo, del suo denaro. E – quello che più conta – del suo corpo… Senza dover rendere conto a nessuno, senza sentirsi in colpa. Una meraviglia, insomma.
Allora, rovesciamo la medaglia e rispondiamo a queste mogli, regine di piccoli castelli, tutto sommato ancora protetti da un bel ponte levatoio che, a sera, si solleva e protegge.
Una donna sola. Dove vogliamo situarla? In una condizione “ottimale”?. Bene, diamole un’età magnifica, trentacinque anni, per esempio. Quella della pienezza, del “fuoco del mezzogiorno”, tanto per intenderci. Mettiamola in un lavoro di prestigio, definito interessante: relazioni pubbliche tanto per dire. Facciamola anche bella, ma non in senso tradizionale: lei è un tipo. Aggiungiamo che si porta dietro “quel certo non so che”, quel sexy naturale che piace tanto agli uomini (ma che lei non fa niente per mettere in mostra). E’ una donna vera, non una coquette, per carità! In più vive da sola, in un confortevole appartamento. E’ brava in casa: pulisce, cuce, stira e lava. Risparmia anche. Legge e ha studiato, ama la musica e i viaggi. Però, se è il caso, si infila un paio di pantaloni vecchi e dipinge i muri di casa, o al contrario, sa indossare un abito di chiffon e non sfigura da nessuna parte. Un quadro da dipingere, questa donna emancipata – come la chiamano – autonoma, capace di mantenersi come un uomo, ma femminile e dolce come la “Donna”.
Bene, adesso facciamola vivere nella realtà di tutti i giorni e nella società così come è. Nel lavoro va tutto bene, a volte benissimo. E’ in gamba, efficiente, persino simpatica. Dopo averla sperimentata con una buona dose di diffidenza, per un certo periodo di tempo, anche gli uomini l’ hanno accettata per quello che vale. E poi, cosa bella e apprezzabile, la trattano come una di loro, non necessariamente come una donna cui far la corte e da guardare con ironia. Magari al principio qualcuno, la faccenda l’aveva messa in questi termini, ma lei era stata in gamba e, senza perdere niente del suo fascino, aveva messo le cose al loro posto.
Ma poi il lavoro finisce e nell’equa distribuzione del tempo, dei suoi giorni e delle sue notti, ne ha di ore da passare questa donna! Vediamo cosa succede. Quasi sempre (talmente quasi che diventa sempre), ci sono le giornate buone, quelle in cui andare a casa, riordinare abiti e cose è un rito tranquillo. Un po’ di cena, qualche giornale arretrato, un po’ di musica. Un bagno, una telefonata e poi a dormire. La settimana è faticosa e poi lei non ama molto la mondanità o le uscite a tutti i costi. Ma questa donna non è un robot: ha carne, sangue, vita. A volte va avanti così per mesi. Poi comincia a sentire che le manca qualcosa, ma soprattutto non sa più dove mettere i suoi gesti. Il bisogno di comunicare, di fare e ricevere una carezza, la voglia di un sorriso.
Ma come, si dirà, in un quadro del genere questa donna “ha” un uomo, deve averlo per forza. Ma quale? Quello delle riviste di carta patinata? Che la porta a cena tutta elegante, al weekend, la adora e la copre di premure? Quell’affascinante maschio, armonioso cocktail di un cicisbeo del ‘700, di un eroe romantico dell’800 e di un attivo manager del ‘900? No, la realtà è diversa, più cruda. Più dura. Per questa donna, così come l’abbiamo descritta, di rado c’è “un” uomo, ci sono “gli” uomini. Lei questo non lo ha voluto in teoria, lo ha imparato sulla sua pelle. Ha amato un uomo per anni, poi è andata male. Non è stata colpa di nessuno dei due, sono stati leali. In fondo se lei avesse proprio voluto, sarebbe anche sposata adesso, ma le era sembrato indecente fare una cosa del genere soltanto per non restare sola dopo tanti anni.
Uomini ne avrebbe anche uno tutte le sere. Come sua nonna teneva il “carnet di ballo”, lei dovrebbe tenere una sorta di “carnet di letto”. C’è stato un periodo, forse tre, quattro mesi, che, frastornata, senza neppure rendersi conto di quello che le stava succedendo, teneva in piedi cinque, sei “storie”. Ma a un certo punto, con sgomento, si era accorta che non erano affatto storie. Erano uomini che le dicevano cose bellissime per stare con lei, che le offrivano (a domicilio, ben inteso) “notti d’amore”, da cui usciva stanca morta per tutto il giorno dopo (generalmente lavorativo…), ma in realtà la lasciavano più sola di prima.
Ciò perché si era accorta che, se voleva fare un piccolo viaggio, era sola, se voleva andare a un cinema, era sola, se un sera sentiva una gran voglia di compagnia, proprio quella sera era sola. Loro, in genere, tutti legati ad altre donne, ovviamente in crisi, – che in lei, donna autonoma, meravigliosa, intelligente e comprensiva soprattutto, avevano trovato il rifugio, l’isola – non c’erano. Per lo meno erano altrove. In quelle loro vite mediocri in cui, tutto sommato, si trovavano bene. Anche se, ogni tanto, ne uscivano per andare alla “ricerca della verità di un rapporto”. (Con musiche diverse quante volte se l’era sentita cantare quella canzone?)
E questa creatura così invidiabile a un certo punto s’accorge che sta perdendo l’equilibrio: aspetta il trillo del telefono, aspettando sovente beve e quando quello finalmente suona, non riesce più a vincere la delusione di sentire la voce dell’amica che le sta ponendo i suoi mille problemi. Oppure si infastidisce alla solita chiacchierata, all’invito fuori. Una storia di apatica attesa le fa sprecare un sacco di tempo, che neppure è più di riposo. E quando si decide ad andare a letto, ha la sgradevole sensazione di darsi fastidio: perché in realtà, anche se una di “quelle” telefonate fosse arrivata, non sarebbe stata contenta per niente. L’idea di sapere fin da prima che si sarebbe trovata nel buio di un rapporto sessuale senza alternative, senza altre comunicazioni, ormai la infastidisce.
Ma allora è meglio lasciarli.
E viene la sera in cui il telefono non è più soltanto una delusione, ma diventa una tentazione. In fondo M. non l’ ha rimproverata un giorno di non essere mai lei a chiamarlo?…Allora quella volta ci prova. Ma di colpo si trova calata nell’ambigua, tradizionale sensazione della donna che…cerca l’uomo. Niente di sgarbato le ha detto M. e neppure S. e neppure G. Ma le loro frasi smozzicate, e senza senso, le loro voci impacciate le davano l’impressione di parlare con dei fantasmi o, peggio, degli sconosciuti.
Eppure è naturale. Questi maschi erano venuti a lei come a un’isola e l’isola non ha diritto di muoversi. E’ lì; salda e sicura, quello che si vede dà forza perché si sa che ci si può approdare ogni tanto con tranquillità.
Siccome, oltre tutto, lei ci crede ancora alla qualità di un rapporto e non ha bisogno di verificarsi nella quantità, incomincia una lotta spietata contro la realtà. Liquida i vari M.S.A.E.,G., (ai quali tenta ancora di spiegarsi, nella speranza di recuperare un’amicizia, ma che non la capiscono affatto, feriti nell’orgoglio dei maschi abbandonati, e al più con aria offesa sentenziano “Tu non sei fatta per stare con un uomo…ormai sei troppo autonoma”) E ricomincia ad andare in cerca del suo equilibrio perduto. C’è da stupirsi se un giorno, stanca, infinitamente stanca dell’opaca sensazione del “dejà vu”, del “dejà vecu” (di avere cioè già visto, già vissuto monotonamente tutti quei gesti, di avere già sentito quelle parole) comincerà a lasciarsi frullare nella testa strani pensieri? “Alla fine, un giorno o l’altro, chissà se troverò un uomo appena appena, potrei pure accettare di diventare la metà di una coppia…No, anzi, mi sposerò.
Abbiamo fatto un quadro troppo triste, troppo cinico? Abbiamo descritto una situazione limite? A noi non sembra. Piuttosto un flash di realtà che vorremmo facesse riflettere un attimo quelle “mogli” che riportano dietro la scontentezza come un vestito vecchio, credendo che vite opposte alle loro siano un paradiso. Auguriamoci che qualcosa cambi, perché vivere in due non deve essere “l’ultima spiaggia” cui approdare per starsene in pace, ma un atto di scelta per essere più felici e più felici in due, forse non con la stessa intensità, ma, senza alcun dubbio, allo stesso modo.

Commento di Marta Ajò

Queste cose, dette e scritte nel 1974 sembravano anticipatorie di tutte le tematiche su donna-sesso che hanno accompagnato il dibattito di genere nel corso di questo ultimo trentennio.
La scoperta del proprio e dell’altrui corpo, dell’atto sessuale e del piacere tra i due sessi, la contraccezione, erano temi che emergevano chiari già in questa nota di costume.
Contemporaneamente l’articolo indaga anche sui terreni impervi della solitudine e del disagio di coppia che rendono ancora contemporaneo questo articolo.
La questione è ancora tutta aperta.