di Federica Fabbiani – Iacobelli ed.
Fino a qualche decennio fa, la rappresentazione della donna lesbica nel cinema era quasi esclusivamente stereotipata: “lei” era una criminale e/o una donna psichicamente instabile con un percorso obbligato verso la tomba o il sanatorio. Oppure transitoria, affetta da confusione sentimentale, da cui rinsavire per tornare a una (sana e consapevole) eterosessualità. Negli ultimi anni però si sta andando verso una normalizzazione. Non tutto è cambiato, ma certo molto si è spostato, sia nel cinema sia nella televisione. La dualità maschile/femminile non è più l’unica a poter raccontare il desiderio: la macchina da presa veicola uno sguardo empatico e diventa un dispositivo che tenta di registrare la complessità di figure non più inchiodate in ruoli fissi e monolitici, bensì variamente contrastate da emozioni e sensazioni. Lo sguardo diventa un sentire all’interno di una relazionalità costitutiva che coinvolge tutte: registe, attrici, spettatrici. Non è più solo una questione di visibilità, ma di posizionamento: riconfigurare lo sguardo filmico in modo che rifletta una nuova relazione femminile con il desiderio, che non è solo desiderio dell’altra, ma è soprattutto desiderio di libertà.