di Anna Maria Crispino
Per un’appassionata lettrice come me, incontrare una scrittrice di cui si conoscono i libri è un’esperienza allo stesso tempo esaltante e spiazzante.
Quando poi capita di incontrala non in un’occasione consueta, quale quella che si può presentare ad una giornalista mandata a intervistare la scrittrice straniera in tour promozionale in Italia, ma a casa sua, nel suo paese, allora l’esperienza si conserva in un angolino del cuore dove si ripongono le cose preziose, come in uno scrigno.
Mi è capitato con Nadine Gordimer, morta poche ore fa a Johannesburg, all’età di 90 anni. L’annuncio è un colpo al cuore, pur sapendo che era malata, perché oltre che una grande scrittrice Nadine Gordimer era un monumento, un’icona, l’esempio in carne ed ossa di come capire, pensare, agire a partire da sé – lei, sudafricana bianca, anzi “africana bianca”, così amava definirsi – può produrre una di quelle eccezionali singolarità che dimostrano come un altro mondo sia possibile.
L’avevo intervistata a Milano alla fine degli anni Ottanta, prima che le assegnassero il Nobel (1991), quando ancora il Sudafrica dell’apartheid teneva Nelson Mandela in carcere e la sua sembrava una nobile utopia: mettere fine al segregazionismo nel suo Paese, creare una società in cui bianchi, neri e coloured potessero convivere. Poi nel 2000 mi capitò di fare tappa a Johannesburg – venivo dall’Angola ancora in guerra, avrei proseguito per il Mozambico devastato da un’alluvione – e la città mi parve a prima vista “quasi” europea,diversissima dalle altre città che avevo visitato, con il centro affollato e congestionato di auto, i quartieri residenziali sulle alture, case bianche con giardini pieni di fiori. Ma era solo una prima impressione: era un’altra Africa quella che aveva prodotto Johannesburg, l’Africa dell’apartheid – non solo del colonialismo – e allora, a sei anni dalla fine del regime, il passato recente era ancora visibilissimo nel tessuto urbano: i bianchi ricchi avevano fatto presto a costruirsi delle cittadelle fortificate fuori della città protette da guardie armate, il centro non più vietato ai neri sembrava abbandonato a se stesso e alla violenza della disperazione, le ex-township come Soweto gravitavano come satelliti distanti, assediati da immigrati dai paesi confinanti, poveri tra i poveri.
La villetta bianca in cui viveva Nadine Gordimer era relativamente modesta per essere in un quartiere collinare punteggiato di minacciosi cartelli con la scritta “Chi entra può essere sparato” (ottimo mestiere quello della guardia privata, che non conosce crisi, sottolineò ). Il suo cancelletto però era aperto e lei ci venne incontro scrollando le spalle “Non bado molto alla sicurezza”, disse accogliendo me e altri 4 o 5 giornalisti italiani in visita. Ci sedemmo in circolo nel giardino posteriore, sotto un portico ombroso.
Ci offrì una bevanda fresca, a quel tempo aveva già 77 anni, piccola, quasi minuta, lo sguardo attento curioso e penetrante. Le ero grata per avermi riconosciuto, dopo oltre 10 anni, ammiccando con un piccolo sorriso prima di rivolgersi agli altri e poi mettersi in ascolto. Ma quando inizia a parlare, le domande non hanno più importanza: lei è lì, nella sua casa, nel suo Paese, e noi siamo quell’Occidente (“europei”, ci chiama) che viene a interrogarla su cosa accade, su cosa si può sperare da quell’esperimento di democrazia “arcobaleno” così coraggioso, così diverso dal resto dell’Africa (e del mondo, per la verità). E nelle sue parole viene fuori tutta la carica di una combattente lucida e appassionata, di una donna che non ha avuto paura e che pensa al futuro senza nascondersi le immani difficoltà del presente. Perché, spiega, “come poteva il Sudafrica risolvere enormi problemi di povertà nel giro di cinque, sei anni? Dovete darci tempo, perché il problema non risale al 1948, quando prese il potere il Partito Nazionale (bianchi afrikaner di origine olandese, detti boeri, ndr) e il sistema dell’apartheid divenne istituzionale.
Questa storia risale allo sbarco dei coloni olandesi al Capo nel 1652” (Leggendaria, n. 22/2000). La differenza tra essere bianchi e essere neri – racconta – lei l’ha capita da bambina (il padre era un ebreo lituano) e “penso a quanto tempo c’è voluto, tutti questi anni, da quei giorni della mia infanzia”. Si accalora, si appassiona nel difendere quello che è stato fatto dal 1994 – cioè dalle prime elezioni democratiche e multietniche che portarono al potere la maggioranza nera – senza tuttavia nascondere il tantissimo che c’è ancora da fare (nell’istruzione, nella sanità, per il lavoro e per la mancanza di case). Sembrava gigante questa piccola donna bianca che avrebbe potuto vivere godendo dei suoi privilegi ma che invece ha scelto di schierarsi con la lotta dell’African National Congress di Nelson Mandela (“un dono del cielo per noi”, lo definisce) perché non sopportava l’ingiustizia.
La sua non è una difesa sentimentale, ma una lezione di lucida analisi politica. “Potrei definirmi un’ottimista con gli occhi bene aperti”, dice ricordando la straordinaria esperienza (allora ancora in corso) della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, o la desegregazione delle scuole – “Non è magnifico? Sono loro, i bambini, la nostra speranza”. “Con un po’ di fortuna dovremmo riuscire a mettere in cantiere una sorta di New Deal per creare occupazione e aumentare la scolarizzazione. Io ho delle speranze per questo Paese”, concludeva. Oggi, pensando a lei, mentre si continua a dibattere del nodo apparentemente inestricabile memoria-perdono-convivenza riemerso con forza brutale per noi europei nei Balcani negli anni Novanta e ora di nuovo in primo piano nella fiammata di violenza che sta facendo precipitare il conflitto israelo-palestinese, la guerra in Siria e altrove, mi viene da chiedermi se quell’ottimismo “con gli occhi bene aperti” che Nadine Gordimer professava all’inizio del millennio abbia retto alla morte di Mandela, alla corruzione dei governi dei suoi successori, alla povertà, alla disoccupazione, alle diseguaglianze che caratterizzano il suo Sudafrica.
Rivedo il suo sguardo acuto e mi auguro che non abbia patito nei suoi ultimi anni, che – al di là delle critiche che pure non risparmiava alle autorità di Pretoria – la speranza nel tempo e nelle nuove generazioni non le sia venuta meno. Credo e spero di no, perché ha continuato a scrivere, spinta forse da quella forte convinzione che deve averla sorretta per tutta la vita: “Bisogna andare avanti e continuare a vivere”, vale a dire continuare a pensare, credere e sperare. E lottare come lei ha fatto, sempre.