di Danila Baldo
La Società della Cura (SdC) è un percorso di convergenza nato durante il lockdown, che coinvolge associazioni, reti sociali, attiviste e attivisti, con l’intento di mettere la cura al centro delle proprie analisi e azioni per proporre una “società della cura” contrapposta a quella del profitto. La cura di sé, delle e degli altri, del vivente e del pianeta presuppone, come il femminismo insegna e come il percorso di convergenza riconosce, la capacità di mettere in discussione l’esistente per immaginare e praticare un diverso modo di stare al mondo.
All’interno del percorso generale si è auto-organizzato il Gruppo femminista della Società della Cura (femmSdC) che ha partecipato attivamente alla costruzione del Recovery PlanET, cioè all’insieme di visioni e di proposte che servirebbero a farci uscire dalla pandemia cambiando paradigma, cioè modificando in radice il sistema che ci governa.
Il gruppo femmSdC ha scelto come metodo quello della convergenza, e prova a praticarlo sia all’interno del percorso della SdC, sia all’esterno, costruendo interlocuzioni con altre realtà femministe.
Per far conoscere il più possibile il senso e il percorso del gruppo femmSdC, parlando dell’esperienza e delle azioni finora intraprese, poniamo ad alcune facilitatrici del gruppo qualche basilare domanda.
Che cosa significa affrontare il tema della Cura con sguardo femminile e femminista?
Barbara Piccininni ha le idee chiare: «Occorre distinguere tra il concetto di cura e il lavoro di cura. Mentre il lavoro di cura è un lavoro a tutti gli effetti e per di più, quasi sempre, estorto gratuitamente, la cura è tutt’altra cosa. La cura è attenzione e tutela verso la vita, le relazioni, l’ambiente, verso sé stesse. La cura in senso femminista ha una dimensione politica e non personale: è autodeterminazione, è decidere secondo le nostre esigenze e i nostri desideri e quindi è autonomia, è posizionamento, e lavorare in una dimensione collettiva in senso trasformativo».
Nicoletta Pirotta rafforza la dimensione politica sottolineando che «la cura non può essere intesa come un gesto di riparazione o di somministrazione di un farmaco. Al contrario, come molti pensieri e molte pratiche femministe hanno insegnato, la cura va intesa come un nuovo paradigma di senso che presuppone un riorientamento radicale di pensiero, insieme all’esigenza di un diverso modo, individuale e collettivo, di stare al mondo. Da questo punto di vista “curare” non può che voler dire confliggere con l’ordine economico, sociale e politico che governa il mondo per provare a cambiarlo».
Alessandra Mecozzi introduce un ulteriore aspetto, che si ricollega anch’esso alla lunga storia del pensiero femminista e cioè l’importanza dell’aver «scavato nel concetto e nella realtà del “lavoro di cura”, facendo emergere e mettendo in discussione la gerarchia di valore e di riconoscimento (anche economico) tra “produzione e riproduzione” e, anche grazie all’insorgere di un pensiero ecologista e femminista, identificando nella cura una politica e una pratica di attenzione alla natura e ai viventi, del pianeta appunto, con una visione di trasformazione radicale»
Gianna Tangolo specifica che «oggi fare della cura un paradigma intorno al quale concepire un diverso modello di società vuol dire sottrarre “il lavoro di cura” alla divisione sociale del lavoro. Divisione che attraverso la sessualizzazione, la razzializzazione e la colonizzazione consente al capitalismo, tanto più oggi, nella sua forma iperliberista, di estrarre il massimo profitto. In questo senso profitto e cura sono termini antitetici che definiscono, appunto, antitetici modelli sociali».
Paula Beatrix Amadio considera la realtà odierna sottolineando come «la “crisi della riproduzione sociale e della cura”, abbia messo in evidenza la fragilità di un’organizzazione sociale che lascia le donne, le loro intelligenze, le loro risorse fuori dai luoghi decisionali. Si parla molto di cura perché nei fatti in un momento come questo è l’anello di congiunzione, di forza e perfino di debolezza, ma per capovolgere il paradigma attuale dovremmo però trovarci in un modello di società nuova e mutata, mentre permane e aumenta il lavoro di cura “invisibile” e non retribuito che svolgono le donne, spesso donne migranti. In questo senso il lavoro di cura retribuito e non, si incrociano, così come s’incrociano le storie e i percorsi delle donne, dentro un contesto culturale e giuridico di misconoscimento del lavoro di cura stesso».
Il PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, cioè il programma di investimenti che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation (NG) EU, ha all’interno un cambiamento rispetto al paradigma della Cura?
La risposta delle facilitatrici è unanime, anche in ragione del fatto che il gruppo femmSdC ha ragionato collettivamente su questo aspetto producendo un documento specifico che può essere letto su Recovery Planet approccio d genere.pdf – Google Drive.
Le indicazioni dell’Unione Europea (UE) prevedono, sulla carta, sospensione del debito e politiche espansive ma, nei fatti, non hanno alcuna intenzione di produrre una rottura con il sistema capitalista perché riaffermano sia la centralità del mercato che l’importanza delle imprese private considerate al pari dello Stato nella capacità di affrontare i problemi posti dalla pandemia. Un approccio che risulta ancor più stridente se si considera che, sul piano sanitario, sono stati esclusivamente i sistemi pubblici a offrire una risposta adeguata allo shock pandemico, benché questi sistemi siano stati fortemente ridimensionati, in particolare sul piano degli organici, dalle politiche neo-liberiste degli ultimi 30 anni.
Alessandra e Gianna sottolineano, in particolare, la scarsa trasparenza democratica dell’elaborazione delle scelte politiche. E infatti si sa ben poco del PNNR dell’attuale governo se non che verrà presentato in Parlamento il 26 aprile, prossimo, cioè a ridosso della scadenza europea.
«Il NG/EU si fonda sull’idea di una crisi pandemica avvenuta al di fuori del modello sociale ed economico, mentre è ormai acclarato che la crisi che stiamo vivendo è sindemica, cioè figlia legittima di questo modello» tiene a precisare Barbara.
Sulle cosiddette politiche di genere il giudizio è ancor più netto. «Le politiche, soprattutto per il lavoro e i servizi, indirizzate alle donne sono contemplate nella parte del Piano che riguarda l’inclusione e la coesione, negano la soggettività di cui le donne sono portatrici e ripropongono le solite vecchie logiche familistiche, il trito e ritrito ritornello della conciliazione fra casa e lavoro (come se riguardasse solo le donne) e un empowerment pensato solo in funzione alla carriera per valorizzare quelle donne che stanno dentro il modello, accentandone la competitività e conformandosi a esso. «Trovo sconfortante» commenta Paula «che ancora oggi il diritto al lavoro delle donne venga considerato come una mera funzione per l’inclusione sociale e non l’esercizio consapevole della cittadinanza e della propria soggettività». Non esiste una proposta concreta di investimenti pubblici per incrementare i livelli di occupazione femminile, superando il “gender pay gap” che si annida soprattutto nell’organizzazione del lavoro e nella segregazione settoriale imposta dal “mercato” e che continua a mantenere distinzioni di valore fra occupazioni ritenute maschili e quelle ritenute femminili.
«Considerare il lavoro una possibilità per essere incluse e garantire coesione, intesa prevalentemente come non conflitto» sottolinea Nicoletta «vuol dire non dare adeguate risposte al problema delle diseguaglianze fra generi che la pandemia ha ulteriormente acuito, come i dati dimostrano».
«Le politiche economiche contenute nei Piani negano l’umano e scollegano l’economia e la pratica politica dal miglioramento del modello sociale e delle condizioni di vita» chiosa Barbara.
Eppure la pandemia avrebbe potuto essere l’occasione per ridisegnare un nuovo patto sociale. Per poterlo fare si sarebbe dovuto mettere in discussione la storica separazione fra produzione e riproduzione sociale e domestica per domandarsi quali siano i bisogni umani da sostenere, quali le produzioni di cui si ha bisogno e quali i lavori socialmente necessari e inoltre, considerata l’interdipendenza e la vulnerabilità dei nostri corpi, come prendercene cura nelle differenti fasi dell’esistenza.
Ma avrebbe potuto un sistema fondato sul profitto riconoscere tutto ciò?
«No» è la riposta corale.
Per questo è il sistema che va cambiato!
Quali sono concretamente le proposte del gruppo femmSdC sul PNNRR, per rispondere alla crisi pandemica provocata dal Covid-19?
Il gruppo femmSdC ha elaborato collettivamente una serie di proposte concrete inserite nel Recovery PlanET, cioè il piano della Società della Cura per uscire dalla crisi.
Le facilitatrici ne evidenziano alcune che ritengono particolarmente importanti:
– abbandonare le “grandi opere” inutili per le comunità, invasive per l’ambiente, colpevolmente onerose, per favorire un patto per la terra che promuova cura del territorio, salvaguardia dei beni comuni, agricoltura sostenibile e sociale con investimenti a piccole imprese agricole gestite da donne;
– ripensare per tutte e tutti i tempi e le modalità del lavoro e inserire come prioritario l’obiettivo, indicato anche dall’UE, del raggiungimento del 60% di occupazione femminile fissando un preciso arco temporale e i settori dove operare l’aumento;
– prevedere il congedo obbligatorio per il padre di almeno 30 gg consecutivi entro i primi 6 mesi della vita del figlio;
– ridefinire un modello di welfare che separi le politiche di genere da quelle per la famiglia e ricostruire un sistema socio-sanitario integrato come diritto delle cittadine/i e di tutte/i coloro che vivono sul nostro territorio;
– rafforzare il servizio sanitario pubblico per tutte/i e un sistema che regolamenti le figure professionali coinvolte, comprese le/i caregiver, anche familiari e/o amicali;
– recuperare le finalità che erano state attribuite ai Consultori nella legge istitutiva e garantire la piena applicazione della 194;
– impedire che la trasformazione digitale rappresenti un ulteriore consolidamento del modello patriarcale attraverso un selvaggio impiego dello smart working (che non va considerato una forma di conciliazione casa-lavoro!) piuttosto che della Dad nelle scuole;
– evitare che le discipline Stem verso cui orientare le studenti siano funzionali a un modello di scienza legata al profitto;
– convertire le produzioni militari, investire sul terreno sociale (sanità, istruzione) e ridurre drasticamente la produzione e il commercio di armi;
-riconoscere l’importanza dei luoghi dove si agisce la relazione fra donne e l’autodeterminazione femminile come i centri antiviolenza e le Case delle donne, alcune delle quali oggi vergognosamente sotto minaccia di sfratto da parte di giunte comunali miopi.
In che cosa consiste il metodo della convergenza?
«Quello della convergenza è per l’appunto un metodo» sottolinea Gianna «che consente l’avvio e la prosecuzione di un percorso dialettico, ampio, partecipato. Un percorso democratico che, attraverso il riconoscimento reciproco, consente di individuare obiettivi, misure e pratiche condivise per il superamento di un modello sociale la cui insostenibilità, sotto ogni profilo, è giunta alla sua massima evidenza». «Non è la prima volta che movimento sociali, gruppi, associazioni, soggetti politici provano a costruire azioni comuni per dare più efficacia allo sforzo di cambiare il mondo» ricorda Nicoletta «ma ora che il diffondersi del contagio ha dimostrato oggettivamente quanto siano profondi i guasti del capitalismo, quanto siano vulnerabili i nostri corpi e quanto interdipendenti le nostre esistenze, convergere, per chi non vuole tornare al mondo di prima, diventa ineludibile. Facendo il necessario perché accada il possibile».
Alessandra tiene a dire che il metodo della convergenza è per lei «un’attualizzazione della pratica dei forum sociali: incontro di soggetti diversi e con proprie linee di azione, mantenendo la propria identità ma scegliendo punti e obiettivi su cui agire in comune. Uscire dalla solitudine per agire insieme. Questo vuol dire che la società della cura non è un “soggetto”, ma un percorso dentro cui tutti, associazioni reti singole/i possano trovarsi a proprio agio e dare il proprio contributo, basandosi su cooperazione non competizione. E Paula vuole aggiungere che «la convergenza è un modello che si costruisce insieme partendo dal basso. È un confronto costruttivo tra diverse persone e realtà che s’incontrano e per l’appunto convergono per costruire proposte e percorsi collettivi e antiliberisti». Barbara mette l’accento sull’importanza del tenere insieme dimensione locale e globale perché «la convergenza è la consapevolezza che da solo non si salva nessuno/a, che sul piano politico, economico e sociale la soluzione alla crisi sindemica si trova nello scardinare un modello sociale fondato sul profitto attraverso la rete tra i soggetti collettivi o individuali che agiscono un conflitto politico, sulla base di una visione del mondo, nella comunità in cui vivono concepita in modo interconnesso alle altre».
Nel gruppo femmSdC ci sono solo donne o anche uomini?
Il gruppo femmSdC è formato da donne, anche se nella mailing list dedicata hanno chiesto di essere inseriti alcuni maschi. Paula considera questa presenza esclusiva di donne legata al fatto che «la costruzione di un percorso femminista all’interno della SdC è partita dalla volontà e dalla forza di alcune compagne impegnate da sempre nella pratica femminista». Per Barbara il fatto che ci siano solo donne «è per molti aspetti naturale. Non è stato intenzionale, ma la necessità di una lettura intersezionale è stata sentita come urgente da un gruppo di donne che dentro un percorso generale volevano aggiungere un ulteriore elemento di analisi e conflitto partendo da un punto di vista femminista». Nicoletta vuole rimarcare che «capitalismo e patriarcato sono sistemi potenti che hanno creato stereotipi, senso comune, pregiudizi ancora non superati. Per questo luoghi specifici di elaborazione di pensiero femminista, orientati all’azione, sono ancora tremendamente necessari, in particolare nei contesti misti». Alessandra sottolinea un concetto su cui c’è concordanza di vedute «deve essere chiaro però che critiche e proposte nascono da una analisi e un pensiero di donne ma riguardano tutte e tutti!».
Come è visto all’interno della SdC il gruppo femmSdC?
Su questo aspetto Nicoletta fa una distinzione: «molto bene sul piano del riconoscimento del nostro ruolo» afferma «abbiamo gestito una plenaria sulla visione femminista del Recovery Plan, le nostre proposte hanno avuto particolare valorizzazione sia all’interno del Recovery PlanET che nell’assemblea generale e nelle mobilitazioni nelle quali si è presentato il Piano. Invece c’è ancora da lavorare sul piano del riconoscimento del valore dell’elaborazione femminista che, per alcuni, resta una parzialità e non invece un altro modo di guardare il mondo, senza l’apporto del quale sfugge la complessità del reale».
In ogni caso il gruppo femmSdC, come dice Barbara «è organico al percorso. Il nostro punto di vista, il nostro posizionamento non è alternativo o divergente, ma è semplicemente un ulteriore punto di vista che parte da una condizione e da una convinzione rispetto alle quali temi generali assumono differenti connotazioni».
Come proseguiranno le azioni?
Il gruppo femmSdC sta proseguendo con cura il proprio percorso, un passo dopo l’altro, tenendo presente l’importanza della chiarezza di contenuti e della qualità delle relazioni interpersonali per favorire dinamiche che favoriscano la tenuta e la crescita del gruppo nel suo insieme. Questo vale anche nel gruppo delle facilitatrici che intendono il proprio ruolo come funzione di servizio e non di potere.
Anche grazie a questa metodologia le azioni programmate sono frutto di un lavoro di confronto, di condivisione e di convergenza che per il momento sta dando buoni frutti. Ne vengono elencate alcune:
– aderiamo e sosteniamo la mobilitazione del 17 aprile organizzata dalle reti femministi “più di 194 voci” e NUDM di Torino alla quale partecipano le Reti “Molto+di194 Rete Femminista Marche”, “RU2020 Rete Umbra per l’Autodeterminazione” e alcune attiviste dall’Abruzzo;
– il 26 aprile, il giorno che il Presidente Draghi presenterà il suo PNRR al Parlamento, saremo in piazza Montecitorio insieme a tutta la Società della Cura;
– vogliamo continuare nel percorso di convergenza con realtà femministe che non stanno dentro il percorso della SdC per costruire mobilitazioni sul diritto all’autodeterminazione delle donne. Come nostro contributo specifico vogliamo ragionare sulla costruzione di un osservatorio nazionale/locale sui diritti delle donne;
– stiamo costruendo un seminario internazionale sul concetto di cura come paradigma di trasformazione sociale, a partire dalle elaborazioni e dalle pratiche femministe in diversi parti del mondo.
Del resto in America Latina da tempo il “cuidado” (cura) è centrale nel pensiero femminista e adesso le ministre delle donne (ministras de la mujer) di diversi paesi sudamericani ne hanno fatto il centro della politica (CEPAL Comision economica para America Latina y Caribe).
Con la consapevolezza che nel percorso della società della cura serva un aggancio con altri paesi nella prospettiva di un’interdipendenza che la pandemia rende ancora più evidente.
Paula Beatrix Amadio (Rete regionale femminista-Marche)
Alessandra Mecozzi (Gruppo Internazionale Casa Internazionale delle Donne-Roma)
Barbara Piccininni (Cattive ragazze-Roma)
Nicoletta Pirotta (IFE Italia-Como)
Gianna Tangolo (Casa delle Donne-Lecce)
https://www.labottegadelbarbieri.org/femminismo-e-cura/