Artemisia Gentileschi nasce a Roma l’otto luglio del 1593. Il padre è Orazio Lomi, figlio di Giovan Battista, orafo fiorentino trasferitosi a Pisa. I Lomi sono una famiglia di artisti, Baccio Lomi, fratello maggiore di Orazio, a Pisa fa scuola e ne segue le orme anche Aurelio, fratello minore. A diciassette anni Orazio viene mandato a Roma presso uno zio materno, capitano delle Guardie di Castel Sant’Angelo, per perfezionare la sua tecnica. Per distinguersi dal fratello Aurelio assume il cognome dello zio e si fa conoscere come Orazio Gentileschi. Dall’unione di Orazio con Prudenzia Montone nascono quattro figli: Artemisia, Marco, Giulio e Francesco. Artemisia fin dall’infanzia segue e aiuta il padre nella sua arte e, cresciuta, coltiva in segreto l’aspirazione a seguirne le orme. Nell’atelier di Monte Cavallo, dove lavora Orazio, posa per lui, impasta i colori, maneggia la trementina e cerca di imparare tutto quello che può. Ma è una donna giovane e bella e presto in via della Croce, dove abita, si diffonde la voce che la figlia del Lomi “è donna calda e la pratica chi vuole”. In realtà Artemisia vorrebbe maritarsi, ma il padre, consapevole della sua bellezza e degli sguardi vogliosi degli uomini, è geloso, non le permette di uscire da sola, litiga con lei e la insulta, la chiama “puttana”. Infine ne fa la sua modella e la sua discepola. Non ha ancora diciotto anni quando si sparge la voce che Artemisia ha una tresca amorosa con Agostino Tassi, un pittore di Perugia che lavora con Orazio. Per distogliere Artemisia da un corteggiatore che vorrebbe sposarla e per aiutarla nella tecnica della prospettiva, il padre la affida a Tassi, che è un ottimo paesaggista ma di dubbia reputazione. Quando inizia a frequentare la giovane Artemisia se ne invaghisce e, sull’onda della fama di ragazza facile che lei si è fatta nell’ambiente, tenta di sedurla. Infine, con l’aiuto della serva Tuzia, arriva a violentarla promettendole di sposarla. Nella speranza e nell’attesa di questo matrimonio Artemisia ne diviene l’amante. Ma Tassi temporeggia, divaga, differisce, promette senza mantenere e intanto la relazione continua. Nella Roma papalina la reputazione di Artemisia ne viene compromessa e la fama di donna che si dà facilmente le rimarrà addosso per sempre, tanto da suggerire in seguito ai poeti del tempo rime in cui si fa riferimento alla sua disinvoltura morale. La faccenda d’amore di Artemisia e Agostino si complica fino ad arrivare al fatto più sconvolgente che segnerà per sempre la giovane: il processo per stupro. Di tutta la vita dell’artista e della donna Gentileschi questo processo è il punto nodale.
Artemisia è rimasta orfana della madre a dodici anni, ha con il padre un rapporto molto stretto, fatto sì di contrasti ma anche di affetto e stima, quando gli confida la violenza subìta il padre, che ha un conto aperto con il Tassi per un quadro che questi pare gli abbia sottratto, denuncia il giovane e convince la figlia a testimoniare al processo. E’ un’esperienza estremamente dolorosa. Per ottenere una confessione veritiera Artemisia è sottoposta sia alla “sibilla”, uno strumento di tortura che le schiaccia le dita rischiando di comprometterne del tutto l’uso, sia alle visite pubbliche delle “mammane”, inoltre è costretta a dover raccontare i particolari dello stupro. Gli atti del processo riportano in maniera cruda il racconto che fa la giovane:
« Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne » (Artemisia Gentileschi, Lettere precedute da Atti di un processo di stupro, Milano, 2004, a cura di Eva Menzio)
Il Tassi si difende dichiarando che la ragazza ha avuto altri amanti e arriva ad affermare che fra lei e il padre sussiste un rapporto incestuoso. Alla fine viene condannato all’esilio, ma, in seguito alla restituzione del quadro ad Orazio, gli viene concesso l’indulto. Questa conclusione ferisce in modo particolare Artemisia, la quale comincia a dubitare delle vere intenzioni per le quali il padre ha permesso l’onta del processo pubblico. Un mese dopo Orazio Gentileschi combina per la figlia il matrimonio con Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore fiorentino. La coppia si trasferisce a Firenze dove comincia per Artemisia una nuova vita.
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La giovane cerca di farsi strada con la sua pittura, comincia a portare in giro le sue tele sperando di trovare qualche committente, tenta l’ingresso all’Accademia dell’Arte del Disegno, ma viene respinta. Su consiglio del padre, con il quale è rimasta in corrispondenza, si reca a trovare Michelangelo Buonarroti il giovane, che resta favorevolmente impressionato dalle sue tele e le affida l’esecuzione di un pannello per il soffitto di una galleria destinata a commemorare l’illustre prozio, il grande Michelangelo. Nasce così l’ Allegoria dell’Inclinazione, un nudo di donna che tiene in una mano una bussola e alle cui spalle splende una stella; in seguito, per decisione di un discendente dei Buonarroti, la figura verrà parzialmente coperta da un panno bianco. Per Artemisia è il primo lavoro su commissione, quello che l’aiuterà, prima donna nella storia, ad entrare all’Accademia dell’Arte del Disegno. Ma per esservi ammessa ha bisogno dell’assenso e della garanzia del padre e allora dovrà pregarlo di recarsi a Firenze. Orazio, dal canto suo, ha bisogno di lavorare e a Firenze può immettersi ancora nel circuito delle committenze, dal momento che la sua fama di pittore ha subito un certo affievolimento. Il 19 luglio del 1616 Artemisia, figlia di Orazio Gentileschi e moglie di Pierantonio Stiattesi, versa i quattro scudi per inserire ad vitam il suo nome alla pagina 54 dei registri della prestigiosa Accademia. E’ il sigillo giuridico che attesta la sua emancipazione: da questo momento Artemisia Lomi Gentileschi possiede un’identità propria e conquista la libertà di usare la sua arte per farne la professione con cui mantenersi.
La pittrice inizia a frequentare la vita artistica e culturale della città, viene introdotta alla corte di Cosimo II de’ Medici, entra in relazione con Galileo Galilei, con cui intrattiene a lungo un epistolario, con il Buonarroti giovane e con i maggiori artisti del tempo. La sua bravura suscita ammirazione ma anche sorpresa, perché si tratta di una donna che non si limita ad una raffigurazione manieristica di fiori o nature morte (soggetti che a quel tempo erano i soli consentiti alle pittrici) ma che affronta temi duri con un linguaggio pittorico denso, dal tratto preciso anche nei particolari, e dalle tonalità cromatiche nette e forti. Le sue opere La conversione della Maddalena e Giuditta e la sua ancella sono considerate di elevato livello artistico. I due dipinti, Susanna e i vecchioni e Giuditta che decapita Oloferne, nei quali sono “raccontate” due vicende bibliche, sono considerati dei capolavori. Nella scelta dei soggetti e nella loro esposizione visiva viene riconosciuto il segno della vicenda traumatica vissuta dall’autrice quando era giovinetta. Nel biancore della carne nuda di Susanna vive l’innocenza insidiata dalla scaltra malizia dei due vecchi, raffigurati con colori di oscurità; dietro di loro, il cielo azzurro, verso cui pare si tendano le mani della giovane ad invocare l’aiuto per scacciare il male. Nel gesto assoluto di Giuditta che scanna il tiranno è stato letto dai critici il bisogno di vendetta verso l’uomo crudele e prevaricatore. Tutta l’opera di Gentileschi, e in particolare i due dipinti in questione, è stata letta in chiave psicoanalitica, trascurando qualche volta di mettere in evidenza la sua particolare attitudine alla resa del colore e la tecnica da lei elaborata per renderlo vivo e stabile mano a mano che si fissava sulla tela.
La pittrice ha ormai conquistato un posto di rilievo nell’ambito artistico, le figure femminili che dipinge hanno il segno della sua fisicità, nella carne, nel colore dei capelli, nei tratti del viso. Ha infatti sperimentato un gioco particolare di specchi che le permette di autoritrarsi. Ma il suo matrimonio è in crisi. Artemisia ora frequenta nobili e artisti, si dice che sia l’amante del pittore Cristofano Allori; Stiattesi è ossessionato dalla gelosia e dal passato della moglie, si sente trascurato, avvilito dalla propria mediocrità di artista; conduce la sua vita fra scommesse clandestine e modelle da portare a letto, contrae debiti che la moglie è costretta a pagare. Dei quattro figli della coppia sopravvive solo Palmira Prudenzia. Fra lutti e traversie economiche, l’unione si sfalda. Chiamata a Roma dal fratello Francesco, Artemisia vi si trasferisce con la famiglia e lì lavora ottenendo successi e guadagni, lì si ricongiunge con le sue radici e si riappropria del cognome Gentileschi, che a Firenze aveva rinnegato, preferendo firmare le sue tele come Artemisia Lomi, per distanziarsi dall’arte del padre. Il conflitto fra i due non si limita alle ragioni private ma investe anche la loro personalità di artisti. Nell’accanimento di Artemisia a perseguire il successo risiede un fondo di revanchismo nei confronti di quel padre che l’ha umiliata cercando di disconoscerne il talento, mentre in Orazio si va sedimentando il livore per la fama conquistata dalla figlia. A Roma il mènage della famiglia Stiattesi giunge al tracollo. Pierantonio esercita nei confronti della moglie una sorta di tirannia , arriva persino a picchiarla, e a causa di una lite con alcuni spagnoli finisce in galera. Per mezzo di un suo protettore Artemisia alla fine ottiene di allontanarlo da Roma e dalla sua vita. A ventotto anni rimane sola con la figlia Prudenzia; è libera da ogni tutela, sia paterna che coniugale, e dipende solo da se stessa. Ha un’esistenza giuridica, diritti e poteri legali, nei registri romani del censimento è “Artemisia Gentileschi, pittrice”.
Nell’inverno del 1626 Artemisia e Prudenzia lasciano Roma per recarsi a Genova e a Venezia. Viaggiano su una carrozza personale, con due domestici ed una cameriera, sotto la protezione della Spagna grazie all’appoggio del duca di Alcalà, di cui la pittrice porta in grembo il figlio. Ma a Roma ha conosciuto Nicholas Lanier, un musicista inglese che viaggia per conto di Carlo I d’Inghilterra per acquistare opere d’arte italiane. Con lui ha avuto una breve relazione ed ora conta di rivederlo a Venezia.
A Genova incontra il padre che non vede da molti anni. E’ un incontro freddo, Artemisia non riesce ancora a perdonargli i torti subìti: la vergogna del processo, il marito “comprato” per allontanarla, la riappacificazione con il Tassi. Persiste fra i due l’antico conflitto: la figlia ammira l’arte del padre, da lui ha imparato e da lui vuole artisticamente affrancarsi; il padre, consapevole del talento della figlia, cerca di rilevarne ogni più piccola traccia di fallimento. Ma Artemisia cavalca ormai l’onda della fama, il suo successo artistico è arrivato al di là dei confini italiani, i suoi quadri, e soprattutto gli autoritratti, sono acquistati da nobili e mercanti. A Venezia la pittrice riprende la relazione con Lanier, l’unico uomo fra i tanti amanti di cui è veramente innamorata. Con lui intraprende e porta a compimento una trattativa segreta per acquistare i tesori d’arte del duca di Mantova e trasferirli in Inghilterra, alla corte di re Carlo. E’ passato più di un anno quando Lanier, obbligato a tornare in patria, le chiede di seguirlo. Artemisia è attratta dalla prospettiva che le offre l’amante: vivere e lavorare in Inghilterra, dove la sua arte è apprezzata, dove potrà entrare alla corte dei sovrani inglesi e dove inoltre potrà continuare la sua relazione con il musicista. Ma prevale in lei l’istinto per l’indipendenza e il desiderio di restare attaccata alle sue radici e soprattutto di tornare a vivere a Roma. Ha due figlie a cui pensare, perché intanto è nata l’illegittima Francesca, per il futuro della quale spera nell’aiuto del duca d’Alcalà che intanto è ritornato a Napoli come viceré. Richiamata dall’antico amante e protettore, che le ottiene varie committenze, nel 1630 Artemisia si trasferisce a Napoli. Cura l’educazione di Prudenzia, per la quale ambisce ad un matrimonio importante, insegnandole a dipingere, facendole studiare musica e frequentare gli ambienti giusti. Per Francesca sceglie il convento, dove saranno le suore ad istruirla e a prepararla per la vita. Inizia per lei una nuova stagione creativa, la sua pittura, fino a quel punto guidata dal fuoco caravaggesco, esprime ora un naturalismo acquietato, la luce si fa meno accesa, i colori più trasparenti, i toni sfumati; i temi non sono più soltanto quelli della rappresentazione carnale dei sensi e del rancore nutrito dai ricordi della sua esperienza giovanile, ora sono rivolti anche a raffigurazioni di carattere religioso. A Napoli vive una stagione ricca di esperienze artistiche e personali, riceve molte commesse, è ammirata e corteggiata, ha raggiunto quell’indipendenza economica che ne fa una donna capace di sostentarsi col proprio lavoro. Il fuoco dell’arte che l’ha sempre abitata si è realizzato in una professione che le permette di vivere autonomamente. E’ ormai una donna e un’artista famosa, che ha infranto regole e tabù per affermare la propria autonomia, eppure non conosce la felicità. Il rapporto amore-odio con il padre ha inciso nella sua anima segni profondi che è difficile cancellare. Fra i due sopravvive un affetto che si nutre di conflittualità. In Artemisia restano, seppure latenti, il rancore e il dubbio che il padre abbia “venduto” la sua rispettabilità di giovinetta per una egoistica revanche nei confronti di un amico che lo ha gabbato; Orazio sente in qualche modo che la figlia ha superato il bisogno della sua protezione e ha trovato la cifra stilistica che le permette di percorrere una propria strada artistica. Ma fra i due persiste un contatto. Approdato a Londra, alla corte di Carlo I ed Enrichetta di Francia, Orazio chiede alla figlia di raggiungerlo per aiutarlo in un lavoro che gli ha commissionato il sovrano inglese. Artemisia, portato a termine un vantaggioso contratto matrimoniale che vedrà Prudenzia sposare un giovane della nuova nobiltà togata napoletana, parte alla volta dell’Inghilterra. E’ il 1638 e infuria la peste. Dopo un viaggio in mare lungo un mese finalmente Artemisia raggiunge il padre, lo aiuta nel lavoro e lo assiste negli ultimi giorni di vita. Orazio muore nel 1639. Forse quell’incontro fra padre e figlia, dopo vent’anni di lontananza, riesce a lenire la sofferenza di una vita; forse il risentimento che si è stratificato nell’anima della pittrice può finalmente sciogliersi nella pietà e riconvertirsi nella memoria dei giorni felici, quando la giovane Artemisia guardava al padre come alla fonte da cui apprendere i segreti della pittura. Da quel momento in poi padre e figlia saranno I Gentileschi e saranno catalogati fra i migliori pittori di un secolo che ha prodotto grandi capolavori d’arte.
Artemisia resta qualche anno ancora in Inghilterra, poi torna a Napoli. E’ stanca e sofferente, la pittrice che nobili e artisti hanno ammirato, alla quale Pierre Dumonstier Le Neveu ha fatto omaggio di un disegno in cui è raffigurata la sua mano, a significarne l’importanza che ha avuto nell’arte, e che si trova esposto al British Museum di Londra, è ora sola e dimenticata. Artemisia Gentileschi muore nel 1653. La sua opera rimarrà per lungo tempo nell’oblio, alcuni dei suoi dipinti non le sono riconosciuti ma attribuiti al padre e ci sono voluti più di due secoli perché la verità fosse ripristinata e la sua arte iscritta nel catalogo dei più grandi pittori di ogni tempo. La pittura della Gentileschi fa un passo avanti rispetto al contesto coevo perché nella sua arte non c’è soltanto tecnica e stile ma anche lo scavo psicologico e intellettuale del soggetto rappresentato. La raffigurazione delle vicende e dei personaggi che dipinge è la metafora della Storia stessa. Si veda la sua tela Clio: la donna che rappresenta la musa della Storia è una figura regale, austera, dall’abito severo e dallo sguardo rivolto in alto a indicare la corona che porta sul capo, a suggerire che è la Storia la sola regina a cui inchinarsi. L’autoritratto come Allegoria della Pittura storicizza la stessa Artemisia che si ritrae nell’atto di dipingere. E’ un quadro particolarmente interessante: lo sfondo è una tela che sta per essere dipinta, in primo piano la figura femminile insolitamente vestita con semplicità, con una lunga catena al collo; una mano tiene la tavolozza, l’altra è a mezz’aria con il pennello che sta per accostarsi alla tela; il profilo del viso è rivolto in alto. E quasi tutti i personaggi-donna di Artemisia sono dipinti con lo sguardo che va verso l’alto, in una posizione che non è di alterigia ma di orgoglio, di grande dignità anche nella tragedia che le rappresenta, e con mani affusolate, spesso abbandonate o inerti, ma sempre di raffinata eleganza, anche nei gesti truci. La vicenda umana e artistica di Artemisia ha ispirato molti scrittori, la prima è Anna Banti, verso la metà del Novecento. Nel 1999 esce il romanzo di Alexandra Lapierre e agli inizi del 2002 quello di Susan Vreeland, forse il più popolare, tradotto in venti lingue.