di Elisabetta Righi Iwanejko
La vicenda della Goldoni di Carpi è l'ennesimo esempio della deindustrializzazione italiana con svendita allo straniero. Un marchio storico e prestigioso in un'epoca dove l'omologazione dei brand è prassi quotidiana. Una storia italiana, una storia emiliana, la tipica storia di un'impresa del nostro territorio. Un secolo fa nasce l'azienda con la produzione di pompe di irrigazione, poi la trasformazione nel settore trattori.
Nel 1926 Celestino Goldoni cominciò nella sua cascina a produrre pompe per l’irrigazione. Nel dopoguerra la produzione venne riconvertita prima in motocoltivatori, poi in motofalciatrici, infine in trattori. Una fabbrica che, pur essendo molto legata al territorio modenese, riuscì nel corso degli anni a vendere i suoi prodotti all’estero grazie ad una serie di accordi commerciali.
La competizione sul mercato globale non indeboliva il territorio, ma anzi era una risorsa per la città di Carpi. Purtroppo è l'ennesimo esempio di un pezzo di Made in Italy finito in mani straniere. Non è questione di retorica nazionalista o patriottica, ma gli investitori esteri sono graditi se funzionali al nostro sistema paese. Nel caso Goldoni sembra invece che gli acquirenti cinesi, Gruppo Lovol, siano predatori e non imprenditori come dimostrato dal concordato preventivo che evita la liquidazione giudiziale con un piano che possa soddisfare i creditori attraverso la liquidazione patrimoniale.
L'obiettivo dei cinesi sarebbe impadronirsi del cosiddetto know-how che loro non possiedono, sacrificando tanti lavoratori specializzati non facilmente assorbili in altri settori. Oramai un trend consolidato con l'Italia ribattezzata nazione fast food dove si compra, si acquista il dna tecnologico, si scappa subito dopo. Anche la Regione ha chiesto garanzie, ma il Governo fulminato sulla “Via della Seta” quando si parla di qualcosa che riguarda la Cina si rifugia in un silenzio imbarazzante e colpevole.