Un lungo silenzio porta l'oblio

da | Mag 29, 2019 | L'opinione

di Marta Ajò

Il caso Silvia Romano

Dal 20 novembre 2018, Silvia Romano, volontaria, è stata rapita a Chakama, una località del sud del Kenya che si trova a circa 80 chilometri dalla città di Malindi, nella contea di Kilifi. Portata via da uomini armati di fucili e machete che, secondo una testimonianza hanno “sparato indiscriminatamente” ferendo cinque persone e preso la ragazza schiaffeggiandola e legandola con le mani dietro la schiena prima di portarla via.
L’unità di Crisi della Farnesina si è immediatamente attivata, mentre la Procura di Roma ha aperto subito un fascicolo di indagine in cui si ipotizza il reato di sequestro di persona per finalità di terrorismo. Anche le autorità kenyote hanno svolto il loro lavoro di ricerche ma indagine dopo indagine di Silvia Romano non si sa più niente.

Nel rispetto del silenzio richiesto dalla famiglia e imposto dalla Farnesina, è comunque necessario non consentire e accettare che una persona sparisca, come cancellata, da un mondo che le appartiene per diritto.

Silvia Romano è una giovane donna partita per il Kenya con una valigia piena di sogni e di ideali che si sono infranti in luogo pressoché sconosciuto tranne a qualche turista che si sia cimentato in un viaggio organizzato nella zona a sud-ovest di Mombasa.
Il Kenya è un paese politicamente, economicamente e culturalmente pieno di contraddizioni in cui, anche la scomparsa di una persona non suscita più di tanto interesse. In questo, come altri paesi africani, i confini della sicurezza e della prevenzione di atti criminali, vengono spesso infranti.
Sparita in un ginepraio territoriale dove a tutti è possibile nascondersi, confondersi o sparire, siano criminali comuni, terroristi, indipendentisti, viaggiatori incauti, persone.
Una zona popolata da bande armate sostenute da altre reti criminali, da uomini in cerca di guadagni facili e disposti a tutto pur di trarne vantaggi.

Anche questo è il Kenya, la meta di vacanzieri sprovveduti, dove si organizzano vacanze su coste meravigliose, safari fra animali selvaggi e parchi nazionali. Il Kenya delle riserve, delle savane, del Kilimangiaro, dei racconti, dei sogni ma anche dove uomini in estrema povertà convivono con le ricchezze dell’imprenditorialità internazionale.
Questo il Kenia che ha ingoiato Silvia Romano.
La giovane cooperante da poco laureata in mediazione linguistico-culturale, una scelta che presuppone la volontà d’impegnarsi in dinamiche per un mondo diverso e migliore.

La possibilità di operare direttamente e professionalmente in campo umanitario, nella cooperazione internazionale e nelle organizzazioni no profit.
Poi, la ricerca e il contatto con le Onlus che offrono formazione sul campo, un progetto coinvolgente, un viaggio nella lontana Africa dove vedere con i propri occhi ciò che si è letto o sentito, un modo concreto per dare un senso alle proprie scelte.
Un approccio operoso verso chi è meno fortunato, una prima esperienza in un orfanatrofio a Likoni, poi nella zona rurale nell’area di Kilifi, non lontana da una costa meravigliosa e meta turistica, dove le contraddizioni più evidenti di questo continente prendono corpo passando dalla povertà dei locali alla ricchezza gestita da multinazionali che traggono guadagno dallo sfruttamento di quelle terre e dei suoi abitanti.
Qui, Silvia Romano si era recata per contribuire nella difficile missione di insegnare ad altri cosa fare per potere fare a meno dell’ elemosina internazionale.

Non è retorica pensare che questa ragazza appartenesse a quei giovani ancora disposti a rinunciare ai propri privilegi e dedicare le proprie energie verso i meno fortunati che hanno ricevuto dal destino un’eredità di diseguaglianza economica e sociale di difficile soluzione. Una situazione evidente e tangibile in Kenya, dove l’incapacità di attuare un’economia del territorio, di sfruttamento interno di risorse anziché di accordi per cederle, che ha portato la popolazione in condizioni di vita difficili le cui conseguenze estreme sono rappresentate dal terrorismo e dall’emigrazione.

Sembra difficile credere che una giovane di 22 anni decida di donarsi in modo altruistico, pur traendone il vantaggio dell’esperienza da poter capitalizzare nel suo lavoro, e ancora più difficile accettare che scompaia in un nulla.
Come nel caso di Silvia, partita dalla prospera città, dalla tranquillità della famiglia, con una valigia di progetti, sotto la bandiera rassicurante della cooperazione, la stessa giovane che i media ci hanno mostrato con il volto sorridente, rapita nel corpo e ai sogni da uomini senza bandiera.
La immaginiamo impaurita nelle mani di questo manipolo di gente senza scrupoli.
Lontano dalla nostro e dal suo mondo, dalla legalità. Avvertiamo la fragilità della sua età e dagli ulteriori rischi del suo essere donna. I suoi rapitori non sono galantuomini, le modalità violente del rapimento lo testimoniano, non s’innamorano, non hanno pietà, non considerano il diritto internazionale né quello umano. L’utilizzo e la vendita di un corpo conta solo in moneta.

Nel migliore delle ipotesi viva, e lo vogliamo credere, non possiamo non pensare alle condizioni con cui ha dovuto convivere. Passando dalla paura prima, all’incredulità, alla speranza e ancora al terrore, alla perduta fisicità, alla libertà deprivata, al dolore dell’abbandono. O forse è più facile non pensarci. Credere che le favole esistano ancora e i finali siano tutti buoni. Che qualcuno di questi criminali abbia un cuore.

Nel frattempo, spettatori indifferenti, curiosi di notizie, critici delle politiche, cinici delle vicende altrui e delle scelte individuali noi, abituati a vivere ciò che accade comodamente seduti, siamo richiamati a non cedere alla comodità quotidiana della dimenticanza.

A chiedere agli organismi competenti di non interrompere le ricerche.
A rifiutare che tutto accada nell’indifferenza degli egoismi e che una persona scompaia nel cratere della guerriglia africana e nel buco nero dell’oblio.

pubblicato su Moondo, 28 maggio