di Andrea Lebra
Negli ultimi tempi, quasi quotidianamente rimbalzano sui media notizie di donne, giovani e meno giovani, uccise dai propri uomini, compagni, mariti, molto spesso ex partner. Dal gennaio 2016 ad oggi sono almeno una sessantina le donne uccise da partner o ex.
Si parla a volte di un fenomeno nuovo e inquietante. Ma è davvero nuovo? Se esaminiamo i dati relativi agli ultimi dieci anni tra il 2006 e il 2015, documentati dalla “Casa delle donne” di Bologna, scopriamo che vi sono state 1.193 donne uccise da familiari o conoscenti: con una media di circa 120 all’anno. Numeri in controtendenza rispetto all’andamento degli omicidi compiuti oggi in Italia. Diminuiscono le vittime di sesso maschile, ma non quelle di sesso femminile.
Se poi si esaminano dettagliatamente i casi, emerge un dato che ha dell’incredibile: mentre nell’ambito della famiglia e della convivenza coniugale o paraconiugale oltre l’80% degli omicidi è commesso dal partner uomo (marito, convivente, fidanzato), nei casi di omicidi di donne compiuti da ex mariti, ex conviventi, ex fidanzati, ex spasimanti, la percentuale sale al 100%. Ad uccidere il proprio ex non sono, dunque, le donne, ma solo gli uomini. Ci sarà mai una spiegazione?
Alla domanda può parzialmente dare una risposta il fatto che, a far parte del lessico italiano, è entrata una nuova parola – femminicidio – creata dalla letteratura criminologica e sociologica femminista, in particolare sudamericana, per esprimere la violenza esercitata dall’uomo sulla donna con un movente di genere, cioè come evento non episodico collegato con i ruoli sociali che l’uomo o la società vorrebbero imporre alla donna.
Un neologismo che a qualcuno non piace
Femminicidio è una parola non ancora riportata in tutti i dizionari. Nella lingua italiana la si usa soltanto da una quindicina di anni. Un termine forte che a qualcuno continua a non piacere. La sua costruzione etimologica (femmini–cidio), infatti, non è delle più felici, dal momento che in latino la femina è la femmina dell’animale e, nel linguaggio comune, il termine femmina è per lo più spregiativo.
Ma questo neologismo ha il pregio di descrivere un fenomeno vecchio, profondamente radicato nella storia e spesso legittimato a livello culturale e ignorato o sottovalutato a livello familiare e solo da poco tempo percepito come assolutamente intollerabile e oggetto di denuncia sociale in tutta la sua diffusione e drammaticità. E si sa che chiamare il male col suo nome è il primo passo per domarlo.
Femminicidio non indica la semplice uccisione di una donna, perché in questo senso sarebbe sufficiente il termine neutro di omicidio. Femminicidio è l’uccisione di una donna perché donna, in un’ottica culturale che non accetta fino in fondo una vera e assoluta uguaglianza di dignità e di libertà tra l’uomo e la donna. È quindi giusto usare il termine femminicidio, come negazione della soggettualità femminile. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo questa nuova parola; il generico “omicidio” risulterebbe troppo blando.
Il Grande Dizionario d’Italiano Hoepli di Aldo Gabrielli (edizione 2015) definisce femminicidio l’uccisione di una donna da parte di un uomo che intende così affermare, in quanto maschio, il suo diritto al dominio e al possesso di lei che, in quanto femmina, sarebbe tenuta all’ubbidienza e alla sottomissione. Definizione analoga è contenuta nel Devoto-Oli 2009: qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.
Importanza delle parole
Prima che il termine si diffondesse, nella lingua italiana, l’unica parola esistente col significato di uccisione di una donna era uxoricidio. Ma uxoricidio, che deriva dalla parola latina uxor, alludeva solo all’uccisione di una donna in quanto moglie e veniva estesa anche agli uomini, quindi al coniuge in generale. In italiano non avevamo una parola che alludesse all’uccisione della donna proprio in quanto donna. Nella lingua inglese invece, dal 1801 esiste la parola femicide. E a questa prima parola se ne accostò, a partire dal 1992, un’altra che è feminicide, coniata dalla criminologa femminista statunitense Diana Russell, secondo la quale il concetto di femminicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/conseguenza di atteggiamenti o di pratiche sociali misogine. Nell’anno successivo, il 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde usò la parola che in lingua spagnola suona feminicidio, che cominciò a diffondersi. L’antropologa messicana l’aveva usata per studiare i numerosissimi e spietati omicidi di donne che erano stati compiuti nella città di Ciudad Juàrez, ai confini tra il Messico e gli Stati Uniti.
Il fatto che il termine sia entrato nel nostro lessico non è privo di importanza. Come insegnano gli studiosi del linguaggio, questo ha un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra realtà sociale. Esso non si limita a descrivere la realtà, ma in qualche misura le dà forma e la determina, rendendo visibile ciò che altrimenti non riusciremmo a percepire come dotato di una sua specificità.
Certo, il linguaggio non crea la realtà nella sua materialità fisica, ma la costituisce come dato culturale. Le cose esistono anche prima di assumere un nome; ma ad un livello di esistenza diverso da quello della cultura e del pensiero. Solo con il linguaggio le cose diventano pensabili, dicibili e trasformabili. Il femminicidio indica l’assassinio legato ad un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la convivente, l’amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari. Prenderne atto è la prima cosa da fare se si vuole davvero prevenire e aggredire il fenomeno.
Il femminicidio: categoria criminologica e socio-antropologica
In ambito criminologico, nella categoria del femminicidio rientrano numerose fattispecie di omicidi: gli omicidi di donne commessi durante o al termine di una relazione sentimentale o di un rapporto matrimoniale da parte del marito, del convivente, del fidanzato, dello spasimante; gli omicidi da parte di padri, fratelli o altri familiari in danno di figlie, sorelle o altre familiari che rifiutano un matrimonio imposto, o per qualsiasi altro motivo di punizione nei confronti della donna; gli omicidi dei clienti o degli sfruttatori in danno delle donne che sono nella prostituzione; gli omicidi di vittime del reato di tratta di esseri umani; gli omicidi di donne a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere; ogni altra forma di omicidio commesso nei confronti di una donna o di una bambina perché donna.
Questi tipi di omicidi che colpiscono la donna perché donna non costituiscono incidenti isolati, frutto di perdite improvvise di controllo o di patologie psichiatriche, ma si configurano come l’ultimo atto di una serie di violenze di carattere economico, psicologico, fisico o sessuale. Le discriminazioni di genere, gli stereotipi sulle donne radicati nel substrato socio-culturale, la divisione di ruoli e l’esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini sono fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità in cui si alimenta il ciclo della violenza.
Sotto il profilo socio-antropologico, il femminicidio esprime invece la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, economica, patrimoniale, familiare, che rimangono sostanzialmente impunite tanto a livello sociale quanto a livello istituzionale. Ponendo la donna in una condizione di vulnerabilità e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa. Il femminicidio è pertanto un gesto estremo di violenza che sottende una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi e di violazione sistematica dei diritti delle donne.
Contrariamente a quanto comunemente ritenuto, esso non è un fatto isolato che accade all’improvviso, ma costituisce l’ultimo atto all’interno di un ciclo della violenza. In questo senso, il femminicidio individua una responsabilità sociale nella persistenza di un modello socio-culturale patriarcale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione, divenendo soggetto discriminabile, violabile, assassinabile. Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna.
Prevenire: si sta facendo tutto ciò che va fatto?
Certamente, l’attenzione alla protezione delle donne che decidono di uscire da situazioni di violenza è nel nostro paese sempre maggiore. Tuttavia ancora troppe donne vengono uccise perché manca una reazione collettiva e determinata ad una cultura patriarcale, che continua a riportare in auge pregiudizi e stereotipi antichissimi, legati alla virilità, all’onore, al ruolo degli uomini e delle donne nella coppia e nella società. In presenza di una cultura così pervasiva da condizionare talvolta anche i soggetti che dovrebbero contrastarla, le istituzioni hanno il dovere di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare, o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto ad ogni forma di violenza nei confronti delle donne.
In Italia abbiamo buone leggi. Ma ciò che manca è soprattutto quella che da più parti viene evocata come una rivoluzione culturale che deve coinvolgere la parte maschile dell’umanità. Ciò che occorre fare è favorire negli uomini la crescita di una mentalità capace di valorizzare l’importanza e il ruolo delle donne nella vita e nella società e di motivare il rispetto assoluto dovuto ad ogni persona. Il femminicidio è un dramma che colpisce le donne, ma è un problema degli uomini.
È necessario porci delle domande. Che tipo di educazione sentimentale viene proposta agli uomini? L’insegnamento della condanna della violenza è un optional o un dovere stringente? Perché si continua ad accettare e a giustificare forme di maschilismo che considerano la donna un soggetto di seconda classe? Perché tanta comprensione degli atteggiamenti volgari nei confronti delle donne? Perché tanti corpi femminili mercificati presenti nei manifesti pubblicitari delle nostre città o in TV come oggetti di eccitazione a beneficio dei maschi?
Ancora. Che cosa fa il mondo ecclesiale per contribuire ad abbattere i muri che discriminano, escludono, ed emarginano le donne? In Italia le Chiese cristiane – come invita a fare l’appello ecumenico lanciato il 9 marzo 2015 da cattolici, protestanti e ortodossi – sentono urgente la necessità di impegnarsi in prima persona per un’azione educativa e pastorale profonda e rinnovata che, da un lato, aiuti gli uomini a liberarsi dalla spinta a commettere violenza sulle donne e, dall’altro, sostenga la dignità della donna e il suo ruolo sia nel privato delle relazioni sentimentali e di famiglia, sia nell’ambito pubblico? Perché nella catechesi, come nella predicazione, sono sistematicamente taciute le questioni relative alla violenza domestica e coniugale ovvero al femminicidio? Quante le comunità cattoliche che nel mese di maggio 2016, accogliendo l’invito di papa Francesco (per il quale rimane molto da fare per le donne che sono in situazioni molto difficili, scomparse, emarginate, persino ridotte in schiavitù), hanno pregato perché in tutti i paesi del mondo le donne siano onorate e rispettate, e sia valorizzato il loro imprescindibile contributo sociale?
Da almeno mezzo secolo cerco di partecipare in modo attento e responsabile alla celebrazione eucaristica domenicale. Ebbene, non mi è mai, mai capitato, neppure negli ultimi 15/20 anni – cioè da quando il tema della violenza maschile contro le donne è avvertito con maggiore consapevolezza –, sentire accennare, da parte di chi esercita il ministero della predicazione, al fenomeno della violenza domestica e al dramma del femminicidio: perché?