di Marta Ajò
In questi giorni, celebriamo la ricorrenza della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Continuando a gridare incessantemente, il nostro No, voglio prudentemente dedicare un attenzione speciale anche a tutte coloro che sono morte in modi differenti e per cause e motivazioni diverse dal legame con un uomo.
Ci sono infatti molte donne, che muoiono comunque in modo violento ed ingiusto, in difesa dei diritti, per portare aiuto alle popolazioni colpite da disastri ambientali per guerre locali, per ideali altri. Perché le donne non sono solo mogli, amanti, fedifraghe o cornute. Le donne sono persone. A volte di grande qualità morale, di raro impegno fisico, capaci di sacrifici, combattenti nell’animo.
Lo sono sempre state, basta leggere la storia, basta vederle nel quotidiano, nel mondo del lavoro come in famiglia.
Eppure storicamente appartenenti ad un genere, ancora un volta e da sempre, maltrattato, misconosciuto, sfruttato. Perché le donne sono gli esseri misteriosi del menarca, della riproduzione, dell’antro della vita. Troppo potere per riconoscerlo, troppo mistero per accettarlo.
“Ci ho messo 18 anni per raddrizzare vostra madre e non ci sono riuscito”, pronuncia il marito indagato di una delle donne uccise. Lo dice smarrito ai figli come a ricercare un’impossibile complicità, trovare una loro affettuosa solidarietà nell’averli, forse, privati della loro madre.
Non una parola di pietà per quella donna rea di avere provato a sentirsi persona, ad uscire dalla prigione in cui appunto quel marito voleva tenerla per sempre. Quella morte, come le altre che ancora quasi ogni giorno avvengono nel nostro Paese, è diventato un caso giudiziario con cui si cimentano sempre nuovi e vecchi format di comunicazione televisiva, trasmissioni inadeguate che si alimentano del dolore, della violenza e della curiosità morbosa esaltata dal vivere orrori che ci offrono, a distanza, la calma per affrontarli insieme ai brividi del pensare che, quelli, non siamo noi.
Il dna sui leggins di Yara, la scomparsa di Roberta, il ritrovamento dopo diciassette anni di Elisa e tante altre di cui si cerca ancora l’assassino sono le più conosciute. C’è poi un lungo elenco che ci fa conoscere altre storie, persone e la loro tragica fine. La donna impalata ad un cancello, quella filmata mentre viene strangola, un’altra incinta e distesa nel letto dopo esser stata massacrata, pugnalate in o presso la macchina, davanti ai figli, nelle loro case, dopo che in molte avevano disperatamente quanto inutilmente previsto la loro fine con tormentate denuncie.
Tutte legate a fatti d’amore o di non amore, da legami deludenti o violenti, dal desiderio di autonomia e il desiderio di possesso. Tante altre alla ricerca di una libertà e di una emancipazione loro negata, vuoi da padri, da costume ed usanze, da credenze religiose. Tutte legate dall’impossibilità di vivere in libertà, di appropriarsi o riappropriarsi del diritto alla libera scelta.
Queste sono le pagine buie che spesso abbiamo avuto bisogno, abbiamo sentito l’urgenza di denunciare, di raccontare per scuotere le coscienze, per chiedere legislazioni adeguate, per scuotere l’indifferenza.
Questa volta, però e purtroppo, dobbiamo piangere, ricordare e raccontare di un’altra donna. Che, insieme ad altre, non nostre connazionali ma non per questo meno vicine, ha trovato la morte in modo ingiusto, imprevedibile. Nell’ ormai giorno nero che passerà alla storia come la strage di Bataclan. Ogni individuo coinvolto, morto in circostante simili, in Francia, In America, in Kenia e qualsiasi altra parte del mondo, andrebbe ricordato ma, in questa occasione e per tragica coincidenza ricordiamo la fatale ed ingiusta morte di una ragazza di cui in questi giorni si parla.
Si chiamava Valeria Soresin. Anche lei vittima di una violenza. Diversa da quella cui siamo abituate a sopportare. Una violenza non contro il nostro corpo ma contro la vita. Una violenza che non accettava il suo modo di vivere, la sua voglia di appartenere al mondo e di difendere i diritti del prossimo da qualunque parte stessero, la libertà di vivere. Prima che esca dalla scena mediatica, dai ricordi della fretta quotidiana ci piace raccontarla con le parole di sua madre.
Ricordate che era una persona, una cittadina, una studiosa meravigliosa. Ci mancherà molto e credo, visto il percorso che stava facendo, che mancherà anche al nostro Paese per le doti che aveva. Valeria a Parigi aveva lavorato anche seguendo i barboni della città, questo dice tutto, dimostra la sua voglia di conoscere in tutte le sfaccettature le realtà che andava a studiare e frequentare.
Pubblicato su Dols