di Letizia Paolozzi
E’ il momento. Una donna al Quirinale. Ora o mai più. E se, poniamo il caso, si trattasse di colei che aspira a detronizzare il governatore Zaia in Veneto la quale dice di sé: Sono brava, intelligente, preparata e bella; non ho peli né baffi?
A parte smentire il proverbio che donna baffuta è sempre piaciuta (vedi il successo di Frida Kahlo), sembra che dobbiamo a lei, a Alessandra Moretti, dallo stile “ladylike”, l’aver liberato, anzi, scrive Il Foglio, “sdoganato” la bellezza.
Va bé. Il nostro non è un paese serioso, malinconico, cupo. Da adesso in poi suonerà un’altra musica: L’estetica ha valore. Pure nella politica. Quella di oggi almeno. Mi preoccupa tuttavia che si tratti di un atout, una single issue, un “di più” richiesto alle donne. Quanto agli uomini, porteremo pazienza se proprio non si tratta di Adone e i suoi fratelli.
Resta un piccolissimo dubbio, che la baldanza comunicativa della parlamentare europea si discosti dalle gaffes della “Vicepresidente incompetente”, interpretata da Julia Louis-Dreyfus, nella serie Veep. La ex senatrice democratica, infatti, nell’inanellare comportamenti, frasi, gesti imbarazzanti punta a un altro obiettivo: sfuggire alla macchina del potere.
Questa lunga premessa per dire che le donne non sono tutte eguali. Che ci sono quelle inadatte al ruolo che occupano. Per ora. Quelle che devono pensare prima di parlare e che hanno bisogno di metterci più testa. Perché le difficoltà, le tragedie che le donne affrontano ogni giorno (pure gli uomini, certo) va nominata da chi dovrebbe rappresentarci.
Ce lo ricorda ciò che è avvenuto in India con il recente episodio di tredici donne morte per essersi sottoposte alla sterilizzazione con il legamento delle tube nello stato del Chattisgarh, e la strage continua della violenza sessuale. Sono appena usciti i dati dell’Eures. Record negativi nel centro-sud. Una feroce galleria di famiglia con le foto di mariti, conviventi, amanti, fidanzati che “puniscono”, perpetrando “il femminicidio da possesso”. Usciamo pure dagli stereotipi. Non tutti gli uomini sono dei macellai. Non tutte le donne sono delle vittime. Ma sono storie che ci riguardano. Non vedere, non sentire e parlar d’altro è la spia del degrado della politica. Non è roba da riservare alle manifestazioni delle femministe. Al patrimonio del femminismo.
Lo dimostra il fatto che torniamo sempre a questa parola perché il linguaggio corrente non ci basta. Non riesce a dare conto di ciò che ci sta a cuore.
Strattonato; accudito; celebrato; maltrattato. Acchiappato per dritto e per rovescio il femminismo sembra scomparire frammentarsi e poi riappare. Il Time l’ha messa nell’elenco dei vecchi attrezzi linguistici da archiviare. Nancy Gibbs, che dirige il settimanale, si è dovuta prosternare in scuse.
Sempre oltre Oceano, hanno ballato per qualche tempo le Women against Feminism. Dopodiché, alzate di scudi, proteste. Ricordatevi che c’è molta strada da percorrere. Gli uomini sul lavoro sono (ancora) pagati di più mentre “se le donne hanno successo nel mondo del lavoro e vengono retribuite in modo equo è tutta la società americana a avvantaggiarsene” ha promesso Obama in uno degli ultimi discorsi rivolti all’elettorato femminile. Troppo tardi. Le elezioni di Midterm gli hanno dato torto e ha perso oltre la Camera anche il Senato.
Se una volta la società non riconosceva alle sue figlie legittimità di parola e di pensiero, ora le donne ci sono. Grazie a quelle che le hanno precedute. Cambiamento fichissimo o roba da vecchie militanti? Certo, sugli scranni parlamentari si stendeva una enorme macchia di giacche e pantaloni grigi cosicché una pensava: in questo paese ci sono tanti Uomini che odiano le donne. Adesso, le giunte (di Torino, Milano, Bologna, Firenze, almeno fino alla “linea gotica”) possono esibire metà donne e metà uomini. Pure il governo sarebbe una mela spaccata a metà se non ci fosse l’ombra rappresentata dal ministro degli esteri, Gentiloni. Non si chiama Paola ma Paolo. Comunque, nessuno è perfetto.
Nemmeno Renzi, dal momento che il problema, per le donne, non è quello di farsi contare, ma di farsi valere. Come? Maria Luisa Agnese (sul Corriere della Sera del 17 novembre) scrive che “Si potrà cantar vittoria – femministe con diritto di cittadinanza e società tutta – solo quando ci sarà davvero equilibrio, per quanto nella differenza”.
Secondo me, bisognerà non contentarsi del numero delle donne. Pure di bella presenza. Fino a quando non dimostreranno di fare la differenza che serve a cambiare le cose.