Elena Pulcini – Filosofa della politica

da | Apr 13, 2021 | Interviste/Video

Intervista di Maria Giovanna Farina

Il Covid si è portato via Elena Pulcini. Filosofa della politica, aveva insegnato Filosofia sociale presso l’Ateneo di Firenze fino allo scorso anno.

Per ricordarla ripubblichiamo un'intervista della filosofa Maria Giovanna Farina su L'Accento di Socrate.

 

Elena Pulcini è docente di Filosofia Sociale all’Università degli Studi di Firenze. I suoi interessi di ricerca si muovono tra la teoria critica della modernità, individualismo moderno, teoria delle passioni, alla teoria del soggetto femminile, teoria del dono, filosofia della cura. Negli anni più recenti si è occupata della teoria delle trasformazioni del Sé e del legame sociale nell’età globale con particolare riferimento al nesso individuo-comunità-globalizzazione. Il suo ultimo libro è Invidia. La passione triste. I 7 vizi capitali, Il Mulino 2011.

Prof.ssa Pulcini lei è stata membro del progetto europeo “Athena”, European Thematic Network Project for Women’s Studies, di cosa si tratta?

Ne ho fatto parte per alcuni anni. È stata una cosa interessante, un network europeo notevole con uno scopo prevalentemente pedagogico che presuppone progetti di ricerca, io ho fatto parte di due sottogruppi uno si chiamava Travel in concepts, quindi concetti in divenire e l’altro Self, quindi l’idea di pluralizzare il concetto di sé. Da queste cose sono nati materiali di un certo rilievo pubblicati nella collana Athena che non va in libreria

È per gli addetti ai lavori?

Sì, si usa in convegni, nella formazione, ecc

Qual è secondo i suoi studi il ruolo della donna e quale dovrebbe essere nella nostra società?

È una domanda da un milione di dollari! Io ho avuto una posizione abbastanza particolare

Per questo desidero che la esponga

Non mi identifico né col filone emancipativo, che è stato quello francese, né con quello differenzialista come è stato quello italiano. In poche parole ho posto molta attenzione al concetto di cura che va decostruito ed esteso alla sfera pubblica e politica, a me non interessano le quote e che le donne vadano al potere perché non mi identifico nemmeno lontanamente con certi personaggi femminili che sono attualmente al potere. Forse ho una visione un po’ utopica: penso che le donne abbiano il diritto di accedere ai ruoli più alti, ma credo possano conservare la loro preziosa eredità che è quella della cura, una volta che la cura sia stata sdoganata da quella sfera propriamente privata

Lei per cura cosa intende propriamente?

Intendo un’attenzione ed una sensibilità al particolare, all’altro, alla relazione, al contesto

Quindi lei dice che la donna deve acquisire certi ruoli senza perdere le altre sue capacità e potenzialità?

Esatto, perché sono capacità e potenzialità che appartengono ad entrambi i sessi però le donne hanno conservato una maggiore potenzialità con questa dimensione. Credo sia fruttuoso confrontarsi criticamente con questa eredità, passare attraverso tutto il percorso di acquisizione dell’autonomia e dei diritti ma portando un punto di vista diverso. Ricordo un vecchio libro di Seyla Benhabib, Feminism as Critique, è un libro in cui si dice che il femminismo dovrebbe esercitare una teoria critica e quindi non cercare di costruire modelli alternativi a quelli maschili, patriarcali e così via, a me non me importa nulla se le donne…lo facciano e fanno bene a farlo, ma penso si debba fare qualcosa di più

Il suo ultimo libro Invidia. La passione triste. I 7 vizi capitali, Il Mulino 2011. È un argomento di grande interesse che lei tratta dal punto di vista di una filosofa. Cosa l’ha spinta a questo studio?

Da un lato è stato un fatto contingente perché mi è stato proposto di partecipare a questa collana dei sette vizi capitali, però non è stato un caso che mi sia stato affidato quell’aspetto perché ho già toccato nel mio percorso una serie di temi che poi legano con l’invidia. Non ho accettato così, c’era un senso. Credo sia un argomento importante oggi, al di là che con le passioni siamo in un tema universale dell’essere umano, ci sono società e momenti storici nei quali l’invidia trova il suo humus ideale. Ciò vale in generale per le società democratiche

Secondo lei dove c’è uguaglianza non c’è invidia?

Là dove c’è uguaglianza nasce inevitabilmente l’invidia perché l’uguaglianza non è mai tale e spesso è un principio

Quindi l’invidia non si può estirpare?

Esatto. La domanda che pongo nel libro è “Se siamo uguali, perché tu hai o sei più di me?” Basta una differenza minima per scatenare l’invidia, anche una persona realizzata, bella, ricca invidia l’amica perché ad esempio è più amata

C’è sempre qualcosa che non abbiamo

Eh, sì. L’invidia scatta in modo particolare là dove c’è uguaglianza

Secondo lei l’invidia può avere anche un valore positivo-propulsivo?

Secondo me quando parliamo di invidia parliamo di un vizio prevalentemente negativo. È stata in passato alla base del Capitalismo e del progresso secondo certi autori, però non mi sembra che ciò ci abbia portati molto lontani. Anche laddove ciò viene affermato, penso ad un teorico come Mandeville che però ne riconosce tutti gli aspetti peggiori. Quando assume aspetti più costruttivi non è più invidia: diventa competizione o emulazione. Competizione è la capacità di mettersi apertamente in gioco, non è un elogio della competizione, però lì le carte sono in tavola e la guerra è aperta e chiara. Ancora meglio un percorso emulativo: io ammiro l’altro nel senso positivo del temine e immediatamente mi scatta non la sofferenza, ma la voglia di diventare come lui o come lei. Come dicevo a quelli de Il Mulino: “Mi avete dato il vizio più brutto di tutti!”

Mi ha piacevolmente colpita il suo interesse anche per l’invidia nella favola di Biancaneve

Eh beh, nelle favole ci sono tutti gli archetipi. Biancaneve e Cenerentola erano due esempi eloquenti

Addirittura si vuole la morte dell’altro

C’è il risvolto negativo, non solo si soffre per il bene dell’altro ma si gode del male dell’altro, la cosiddetta gioia maligna

È in aumento l’invidia?

Assolutamente sì, tutta la nostra società si fonda essenzialmente su di essa e fa molta presa perché è una società competitiva. È evidente come oggi la competitività, la gara, siano assolutamente prevalenti ma hanno perduto ogni vera oggettività. Pensiamo, ad esempio, al mito del successo come viene rappresentato nel periodo hollywoodiano del periodo d’oro in cui l’attore o l’attrice entra in rapporto problematico col suo desiderio di successo: il successo si conquista attraverso meriti, competenze, fatica e sacrifici. Questo è un po’ il mito novecentesco, oggi il successo è qualcosa da ottenere subito, velocemente e senza competenze, impegno e fatica. Pensiamo ai reality o al Grande Fratello, chi vince non ha alcuna abilità particolare. La società consumistica è l’altra grande palestra dell’invidia, pensiamo agli adolescenti e alla necessità di appropriarsi del marchio simbolico

Degli oggetti

Quello che importa non è tanto l’oggetto ma la rivalità con l’altro. Pensiamo al consumo usa e getta, non abbiamo una grande affezione agli oggetti che non hanno più una vera utilità e neppure un piacere edonistico. Non che questi aspetti non esistano, ma prevale fortemente l’appropriarsi di una cosa solo perché l’altro ce l’ha, non era così nel secolo scorso

Era più faticoso possedere un oggetto

Sì e l’oggetto aveva ancora una dimensione oggettiva, adesso sembra essere diventato tutto soggettivo

Il suo libro La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2009, ha ricevuto uno dei premi di filosofia più prestigiosi d’Italia, il Premio “Viaggio a Siracusa”. Lei parla di paura, di che paura si tratta?

La paura, noi sentiamo parlare della paura, che viviamo in uno stato di insicurezza, i rischi dell’età globale dal riscaldamento atmosferico, al terrorismo, ai virus ci mettono in una situazione di costante precarietà. C’è un massiccio ritorno della paura e ciò è assolutamente vero e innegabile, ma anche attraverso certe intuizioni di vari filosofi, io ho amato molto il filosofo tedesco Günther Anders, che già nella metà del ‘900 aveva intuito che non c’è una vera paura, se avessimo paura davvero saremmo pronti a mobilitarci molto di più. Noi in realtà siamo paralizzati. Ciò che io propongo è la distinzione di Freud tra paura e angoscia. Siamo tanto angosciati e tendiamo alla rinuncia e alla paralisi, angoscia vuol dire paura verso un oggetto indeterminato: qualcosa che non posso controllare, circoscrivere e toccare

Certo perché se io ho paura del buio accendo la luce

La paura è una passione efficace, bisogna avere paura

Chi non ha paura si fa male