Maria Lisa Cinciari Rodano

da | Dic 4, 2017 | Interviste/Video

A cura di A. Carestia e I. Ambrosi

 

 

Nella sua bella casa in via di Porta Latina, piena di libri e carica dei ricordi di una vita che ha attraversato il novecento, dialogando con i grandi della politica e della cultura del tempo, abbiamo incontrato Maria Lisa Cinciari Rodano, meglio nota come Marisa Rodano.

Nata a Roma il 21 gennaio da madre ebrea e da padre sindaco e podestà di Civitavecchia, oltre che affermato imprenditore, Marisa Rodano è stata deputata per il PCI dal ’48 al ’68, prima donna a ricoprire la carica di vice Presidente della Camera (dal 1963 al 1968), poi senatrice e consigliere provinciale e dal 1979 al 1989 parlamentare europea. Ha ricoperto dal 1956 al 1960 la carica di Presidente Nazionale dell’UDI – Unione Donne Italiane, di cui è stata cofondatrice e per molti anni componente del Comitato Direttivo Nazionale; ha ricoperto gli incarichi di presidente della Commissione d'inchiesta del Parlamento europeo sulla Situazione della donna in Europa (1981-1984) e di vicepresidente della Commissione dei diritti delle donne del Parlamento europeo (1984-1989).

La conversazione si è svolta lungo il filo coinvolgente della memoria. Con toni pacati e senza enfasi, la Rodano ci ha parlato della sua vita straordinaria; dei rapporti familiari; della presa di coscienza dei valori di libertà, uguaglianza e giustizia sociale sui banchi del liceo Visconti di Roma; della sua partecipazione alla cospirazione antifascista, del carcere e poi della liberazione; dei programmi di azione e delle lotte per l’emancipazione delle donne per conquistare il diritto di voto prima e la parità dopo.

L’intento era quello di conoscere direttamente da una protagonista della Resistenza il percorso personale che aveva portato la giovane studentessa liceale , con alle spalle una famiglia borghese ed un padre esponente del fascismo, a partecipare ai gruppi di cospirazione antifascisti; ma anche quale fosse la percezione collettiva della condizione della donna durante il fascismo, il processo di maturazione politica che spinse le donne ad uscire dal silenzio ed a prendere la parola, partecipando alla lotta di liberazione e conquistando il diritto di voto e la cittadinanza politica.
Il cammino per una piena autonomia di pensiero e di azione politica da parte delle donne è oggi ancora lungo, ma a quelle non poche donne che scelsero la lotta per affermare i valori di libertà e di giustizia sociale va il riconoscimento di avere largamente contribuito a cambiare il verso della storia e della storia delle donne in particolare: con la loro scelta segnarono un punto di rottura con una cultura patriarcale e l’inizio di un nuovo percorso, personale e collettivo, per la realizzazione di quei valori di libertà e di uguaglianza poi solennemente affermati dalla nostra Carta costituzionale che proprio in quelle lotte trova la sua prima e più importante ispirazione.

La prima domanda a Marisa Rodano non può non riguardare la sua vita di ragazza di famiglia borghese, la contraddizione vissuta tra una madre ebrea ed un padre esponente del fascismo, il percorso di maturazione personale della scelta antifascista.

Ho vissuto un’infanzia ed un’adolescenza da ragazza della buona borghesia romana, con una madre colta ed elegante, presa dai tanti impegni, personali e familiari, dettati anche dall’attività politica di mio padre. La nostra casa era, infatti, frequentata da molti esponenti del fascismo. Ricordo in particolare Alberto de Stefani, ministro delle

Finanze e poi del Tesoro, membro del Gran Consiglio; il generale Mario Roatta; Giuseppe Bottai, governatore di Roma, poi ministro delle Corporazioni e ministro dell’Educazione nazionale.
Facevo parte dell’Opera nazionale Balilla, il che comportava la mia partecipazione alle sfilate annuali con la divisa di piccola italiana prima e di giovane italiana dopo: ricordo con molto fastidio quelle sfilate a Via dell’Impero, con la gonna lunga a pieghe e la camicetta bianca, e i saggi ginnici al Foro Italico.
Di fatto la scuola, le amiche, le feste, le vacanze in Austria o a Monterado nel “Castello” del nonno Alessandro, le lezioni di piano, le lezioni di pittura impartite prima da Giacomo Balla nello studio di via Ripetta e poi dalla figlia Elica cadenzavano la mia vita.
Come ho detto più volte, fu l’età della inconsapevolezza.
In famiglia, con mia sorella Gigliola, di circa dieci anni più piccola, non poteva esserci un vero scambio di idee.
Mio padre Francesco, per gli amici Checchino, impegnato tra la politica e l’attività di imprenditore, era spesso assente da casa. Possedeva rimorchiatori con i quali faceva entrare ed uscire il “postale” per la Sardegna dal Porto di Civitavecchia. Tramite due società – La IPES, di cui era Presidente il Principe di Udine (cugino del Re) e la SIPOC – pescava sulle coste del Marocco e inscatolava per la vendita il pesce pescato. Aveva un cava di marmo sulle pendici del Monte Amiata e commerciava in marmi. Fu anche per un certo periodo Presidente del Consorzio di Bonifica del Monsoreto in Veneto.
Fu mia madre a esercitare influenza sulla mia formazione. Mia madre non manifestò mai simpatie per il fascismo, anche se non fu mai apertamente antifascista fino alle leggi razziali del ’38 e alla crescente ondata antisemita che la costrinsero a trovare rifugio in un convento.
E’ sui banchi del liceo Visconti di Roma che cominciò a maturare in me il rifiuto del fascismo, grazie agli insegnamenti del professore di religione e del professore di storia e filosofia, che spinsero molti di noi giovani alla riflessione sui principi di libertà e democrazia come valori fondanti di una collettività. Per un breve periodo ebbi come supplente di filosofia Paolo Bufalini, militante antifascista, con il quale instaurai un rapporto profondo, importante e duraturo. Fu poi il Segretario Regionale del PCI dell’Abruzzo.

Anche la frequentazione del circolo culturale della Congregazione Mariana Prima Primaria, detta “la Scaletta”, che stava in Via del Seminario, contribuì alla mia crescita personale, grazie ai dibattiti che vi si svolgevano.
Fin dal liceo, con un’ amica e compagna di scuola, mi ero recata nelle periferie romane, luogo dove si concentravano gli immigrati in una situazione di grave povertà e degrado sociale e dove, assieme alla diffusione del catechismo, distribuivamo generi di prima necessità ai baraccati e alle famiglie che avevano trovato riparo sotto gli archi degli acquedotti antichi.
Non ero sola a maturare questa nuova coscienza antifascista; con me molte compagne e compagni del liceo Visconti e di altri licei romani, con i quali cominciammo a vederci e a frequentarci. Importante fu anche l’incontro con Franco Rodano, mio compagno di liceo e mio futuro marito, con il quale facevo lunghe discussioni nel tratto di strada comune per fare ritorno a casa; fu l’inizio di battaglie condivise per la libertà e la democrazia che segnarono le nostre vite di ragazzi e che continuammo a combattere durante gli anni universitari e, sia pure in forme diverse, anche dopo la caduta del fascismo.
L’immagine della donna borghese disegnata dalla tradizione e dalla cultura del tempo, in qualche misura trasmessami anche da mia madre, non mi apparteneva più. Quel detto, attribuito a Pio X, che in puro dialetto veneto indicava le tre qualità che una donna deve possedere:” la donna che la piasa, che la tasa, che la staga in casa” (la donna deve piacere, tacere e stare a casa) mi sembrava un muro da abbattere con la partecipazione attiva e il coinvolgimento diretto delle donne per l’affermazione di un’autonomia identitaria che passava attraverso l’uguaglianza nei diritti in una società libera e democratica.

La presenza e la promozione delle donne nelle attività sportive ed agonistiche dell’epoca si pone in contrasto con le tue conclusioni?

Certamente la partecipazione delle donne alle attività sportive segnò per molte di loro un momento di libertà personale rispetto alle angustie dell’ambiente domestico, ma non ebbe una valenza promozionale per la liberazione delle donne in genere e delle stesse atlete in particolare, perché l’esercizio di attività sportive si inseriva nel quadro dell’ideologia fascista che privilegiava la cura e la salute

del corpo , che per le donne aveva la fondamentale funzione di riproduzione.

Quali furono le forme di partecipazione all’antifascismo militante romano? E perché il carcere?

Se Lei si riferisce al periodo antecedente il 25 luglio 1943, con i compagni liceali e universitari compivamo azioni di informazione della cittadinanza, nel tentativo di scuotere le coscienze degli italiani; Sul piano dell’organizzazione politica, nel 1941 ho partecipato alla costruzione del Partito Cooperativista Sinarchico (PCS), fondato da Franco Rodano ed altri cattolici; un partito che propugnava forme utopiche di socialismo umanitario e che, dopo la fusione con il Movimento Cristiano Sociale, si trasformò in Partito Comunista Cristiano (PCC). Confluimmo poi nel PCI dopo il V° Congresso del partito, nel quale fu approvato un nuovo Statuto, che non richiedeva agli iscritti l’adesione alla teoria marxista-leninista.
Durante l’occupazione tedesca di Roma feci parte dei G.D.D.
I GDD, (Gruppi di difesa della donna) riconosciuti ufficialmente dal CLNAI (Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia) come proprio organo, svolgevano attività di supporto ai nuclei partigiani, occupandosi delle cure ai feriti, del trasporto di armi e di cibo, oltre ad organizzare scioperi nelle aree urbane industrializzate. I GDD operanti a Roma (e di cui facevo parte) svolsero in particolare intensa attività di assistenza alle famiglie degli antifascisti in carcere, ma parteciparono anche ad attività di diffusione della stampa clandestina e di sensibilizzazione antifascista nelle scuole, oltre che ad azioni di vero e proprio sabotaggio. Ricordo che di notte gettavamo per strada chiodi a tre punte per danneggiare i mezzi degli occupanti e attendevamo con ansia l’esito della nostra azione.
Non ricordo più in che anno della mia partecipazione ai gruppi antifascisti il prefetto di Roma, Verdiani, rese edotta mia madre, che ebbe a richiamarmi severamente, chiedendomi di interrompere drasticamente la mia attività di “cospirazione” antifascista; non fu così e il 18 maggio del 1943, nel corso di una retata, fui arrestata insieme ad altri esponenti del PCC, tra cui Franco Rodano.

Nel carcere delle Mantellate, sovraffollato oltre ogni limite, mi ritrovai in una cella con altre tre donne, di cui due arrestate perché avevano abortito, la terza era una straniera. La maggioranza della popolazione femminile era detenuta per violazione del divieto di aborto. Furono giornate difficili, ma ebbi modo di conoscere il mondo del carcere e l’umanità dolente che lo abitava, di riflettere sulle ragioni di una scelta così difficile compiuta da alcune delle mie compagne di cella e sugli strumenti per evitare scelte dettate dal bisogno.
Il 23 luglio fui portata in Questura e poi rilasciata.
Incredula, felice e sollevata mi avviai a piedi verso casa, attraversando il centro di Roma; lungo la strada incontravo volti preoccupati, scuri, ma non mi fermai a parlare e a chiedere, desiderosa com’ero di raggiungere la mia casa. Capii subito che la fine del Fascismo era vicina; il successivo 25 luglio 1943 cadde il regime fascista, Mussolini venne arrestato e portato a Campo Imperatore sul Gran Sasso. Iniziarono i negoziati tra il Governo Badoglio e gli alleati, ma il 9 settembre i tedeschi occuparono Roma. Io, essendo “schedata”, passai nella clandestinità.
Nei nove mesi di occupazione tedesca della Capitale continuarono numerose le azioni di contrasto nei confronti dell’ex alleato tedesco; noi giovani universitari, oltre a proseguire le azioni dimostrative, di collegamento e di informazione, e l’attività di distribuzione della stampa clandestina, partecipavamo ad azioni rischiose, come il trasporto di bombe – persino nascoste dentro una carrozzina per neonati -, le scritte sui muri, la semina di chiodi a tre punte per forare le gomme dei mezzi di trasporto nazisti.
Partecipavamo ad una rete di assistenza solidale alle famiglie degli incarcerati e dei caduti; attraverso scritte sui muri, diffusione di manifestini e copie di giornali clandestini , cercavamo di coinvolgere i cittadini e di spingerli a reagire contro la guerra e l’occupazione tedesca.

Dopo la caduta del fascismo, quale fu il ruolo delle organizzazioni femminili per ottenere piena cittadinanza politica?

Fu un periodo di grande attivismo politico che vide le donne organizzarsi, superando divisioni ed appartenenze, per ottenere la piena cittadinanza e uguaglianza di diritti.
Dopo la liberazione, nel 1945, i GDD confluirono nell’UDI, da poco ufficialmente costituita ; nella nuova associazione trovarono spazio le elaborazioni a più voci di una nuova identità femminile, che passava innanzitutto attraverso il riconoscimento del diritto di voto che le donne da tempo rivendicavano, ma lo scopo era quello di sviluppare il processo di emancipazione delle donne, con la conquista di tutte le libertà,” sia economiche che politiche e sociali”, come recitava l’atto di fondazione, e in questa prospettiva – oltre al diritto di voto – ponemmo alle donne e alla politica questioni concrete, come il diritto al lavoro, la parità di salario, la tutela della lavoratrice madre, la mancanza di servizi sociali.
Per la prima volta le donne poterono partecipare al voto nelle amministrative del 10 marzo 1946 e l’affluenza fu superiore all’80 %; poi sempre numerose parteciparono alle votazioni per l’Assemblea costituente e per il referendum del 2 giugno 1946.
Furono 21 le donne elette alla Costituente e a loro si deve la introduzione nella Costituzione dei diritti delle donne; si deve a Teresa Mattei la formulazione dell’art. 3 della Costituzione, ed in particolare la precisazione che vanno rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che , limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Si tratta di un richiamo al legislatore per realizzare una eguaglianza sostanziale anche attraverso strumenti idonei a correggere le disparità tra uomini e donne, determinate da situazioni di fatto; un’affermazione fondamentale che ha consentito la elaborazione di tutta la normativa tuttora vigente in materia di parità,

Dal processo di emancipazione al femminismo di oggi: perché le nuove generazioni di donne si sentono estranee alle battaglie delle loro madri?
Non vi è stata da parte delle donne del ’68 alcuna trasmissione di
memoria alle figlie; questo perché il femminismo – che pure ha avuto una grande importanza perché ha introdotto forti elementi di

autoidentificazione e di libertà – ha ridotto il problema della emancipazione e della liberazione delle donne ad un fatto individuale, al solo rapporto interpersonale, tra uomo e donna.
E’ venuta quindi a mancare la consapevolezza dell’agire collettivo quale necessaria modalità e/o quale strumento di lotta per raggiungere obiettivi di emancipazione e liberazione della donna; nonostante le tante leggi che hanno inciso profondamente sul sistema normativo, depurando i rapporti familiari da vecchie concezioni e rafforzando le tutele del lavoro e della maternità, restano ancora larghe aree di disparità che richiedono una mobilitazione collettiva delle donne: penso alla mancanza di servizi, alla parità di salario che spesso nella pratica non viene applicata, alla scarsa o addirittura inesistente presenza delle donne nei posti di vertice delle istituzioni, politiche e non, così come nei posti di comando nei vari settori dell’economia del Paese.
E’ un momento di grave difficoltà in cui versano le associazioni di donne, ma anche i partiti, e questo mentre in tutta Europa sta nuovamente montando l’onda crescente del fascismo a cui purtroppo guardano sempre più le nuove generazioni di uomini e di donne, che ignorano la storia passata .
Ed è un fenomeno preoccupante!

Giudicedonna numeri 2/3 2017