di Marta Ajò
L’8 marzo è una certezza a cui non rinunciare, una data universale, luttuosa nel ricordo quanto simbolicamente rappresentata da mimose in fiore e donne in festa o in armi. Spuntate.
E’ necessità, per più di metà del genere umano, di rivendicare la propria identità, la preziosità delle proprie caratteristiche, l’utilità delle differenze, l’opportunità di essere presenti, di partecipare, pretendere riconoscimento e rispetto.
Strano modo di avviarsi verso le dinamiche che oggi vengono definite dalla rivoluzione del G5, della Next Generation EU, dal futuro tecnologico e dal cambiamento socio-politico che dovrebbero sancire la fine dei postumi del passato. di cui ci portiamo dietro momenti di gloria e momenti di orrore.
Non ancora chiaro cosa produrrà il futuro salvo il fatto che è questo il momento in cui si gettano le sue basi, il momento della responsabilità collettiva in questo presente, l’eredità da consegnare alla storia.
Mettere in moto diverse metodologie di lavoro, rivedere l’organizzazione sociale e il rapporto con l’ambiente, il sistema giudiziario, una cultura del territorio, un turismo sostenibile, modelli di vita in grado di sradicare i vecchi presupposti che hanno creato pregiudizi e stereotipi, condizionato comportamenti e vita delle persone.
La visione di un cambiamento, perché non cada esso stesso in uno stereotipo, non può che passare gradualmente attraverso la realizzazione di alcuni obiettivi.
I quali, prima di essere messi in moto, devono basarsi sia sulla chiarezza dei deficit esistenti sia sulla rilevazione dei bisogni e le reali possibilità d’intervento, salvo rimanere nell’utopia.
Questa complessità d’insieme riguarda in primo luogo la sfera alta della politica, che esprime, sollecita, favorisce, modifica il potere economico, le alleanze geografiche.
Da parte delle donne in quanto gruppo, nei loro tentativi di ribellione, analisi, proposte, rappresentanza, nell’euforia della celebrazione sembrano affidarsi ai simboli delle loro posizioni e delle loro lotte senza però trovare un modo per incidere in modo strutturale nel cambiamento, senza affondare la lama nel corpo che le vuole fuori dalle sfere in cui esso stesso agisce.
Ovvero politica, scienza, economia, cultura ecc. , ove se ne accetta la presenza senza sollecitarla, svilupparla, considerarla salvo opportunismi temporanei.
Esempio tipico, il recente tentativo, fallito, da parte di uno dei partiti di maggioranza di questo governo. Il PD, che dopo la fine del Partito Socialista e della sua spinta riformista e dialogante a sostegno delle donne, ha ereditato il privilegio di questo rapporto raccogliendo il testimone ma senza mantenere le premesse originarie. E’ un dato che le nomine da esso espresse per le rappresentanze del nuovo governo hanno mostrato un’esclusione di meriti di genere mai vista nel recente passato. Il tutto sacrificato in modo recidivo sull’altare delle convenienze e dell’utilità.
Insomma per ritornare al mese di Marzo e al giorno 8, le donne che si stanno ancora una volta agitando per fare valere il loro peso, in forme diverse come lo sciopero o attraverso un’appropriazione massiccia di spazi sul web, oltre quelle che si accontentano di mimose e di un pensiero, dimostrano che il vecchio mondo non ha insegnato abbastanza e il nuovo non è ancora strutturato.
L’8 marzo permane una ricorrenza ininfluente nella sostanza e retorica nel messaggio mediatico.
In un mondo in cui i gruppi economici dettano legge, i gruppi sociali non in grado di contrattare i propri bisogni rischiano di essere ininfluenti. Le contraddizioni di questo passaggio sono presenti ogni giorno nei fatti raccontati, nel vissuto dei singoli.
Questa fioritura marzolina di genere, ha come unico profumo quello delle mimose, come sostanza l’anticipazione della primavera.
Stagione considerata da sempre come l’inizio di qualcosa di “splendente”, nella quale l’esuberanza della natura si risveglia dal letargo invernale, torna il tepore e la luce. Vissuta con un’accezione positiva,“la primavera della vita”,“vivere una seconda primavera”, “il trionfo della vita sulla morte” ed anche come trionfo“la primavera dei popoli”, “la primavera di Praga”, “le primavere arabe”, quante altre?, avvenute dopo periodi di guerra, repressione, sottrazione di libertà e d’identità.
Quali sono i buoni motivi per accettare che l’8 marzo sia considerata ancora in questo secolo una giornata di celebrazione e di festa? Perché dopo marzo e la primavera ci sono l’estate, l’autunno, l’inverno e ci si ritroverà di nuovo, il prossimo 8 marzo, nello stesso luogo, nello stesso posto, con la stessa voglia di lottare e l’incapacità d’incidere. Ancora a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, le loro doti e le loro virtù, i loro meriti e la loro capacità, la loro formazione e la loro professionalità, la riproduttività e la cura, l’esistere in quanto persone.
Da un marzo all’altro c’è dunque tempo per ragionare sui modi per cambiare questo stereotipo storico, invertire la rotta. Fare si che il prossimo marzo sia cresciuta una diversa consapevolezza che conduca ad una diversa riorganizzazione della loro forza, che agli slogan e alle parole corrispondano regole, gli spazi virtuali divengano reali e fisici, riempiti di cose e persone. Sostituire l’inesorabilità di un marzo celebrativo, più d’ ingiustizie che di conquiste, per approdare al marzo del risveglio universale.
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