Il silenzio delle vittime: “Perché ho taciuto”

da | Nov 18, 2020 | Editoriali

di Marta Ajò

Testimoni 2 – Racconti di violenza e di dolore per questo insolito 25 Novembre.
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Il silenzio delle vittime: “Perché ho taciuto”

Non ne usciamo vincenti…ma nemmeno senza speranza m.a.

Il silenzio delle vittime di violenza, di qualsiasi natura e gravità, è qualcosa che a volte appare simile all’omertà. Eppure è come se la vittima continuasse a temere il suo aguzzino-carnefice, le conseguenze del suo atto. A volte riesce a perdonare. È un lungo elenco di storie taciute e spesso solo il loro drammatico epilogo le rende note.
Ma perché e chi sono queste donne che non denunciano? Nonostante che in questa direzione si muovano ormai organizzazioni nazionali ed internazionali, la politica, le riviste femminili e tutti i media?
La violenza contro le donne è un fenomeno non solo di emarginazione sociale o di ambienti degradati. Si nasconde in ogni luogo e si manifesta nei modi più imprevisti. Violenza privata, fisica e psicologica, ricatto, omicidio. Eppure, ancora oggi troppo poche denunciano le aggressioni subite alle forze dell’ordine e nascondono la propria esperienza.
E’ difficile che accettino di parlarne, anche se molte delle vittime hanno consapevolezza di sé, sono informate, e sanno a quali strumenti possono appellarsi. Esse vivono e convivono con un senso di colpa interiore che scambia i parametri vittima-carnefice.
Sia nel caso di denunce a scopo cautelativo che quelle fatte a ridosso del reato, raccontare la violenza richiede coraggio, la paura domina assoluta, la vergogna ne è un corollario. La contestualizzazione dei fatti e la testimonianza a distanza di molti anni rende difficile prendere una posizione pubblica nel timore di ricevere discredito, accuse di manipolazione e in alcuni casi si ricatto. Nel tempo la vittima non si percepisce più tale anche se si trova a convivere con un forte senso di disistima.
A dimostrazione di questo passaggio così delicato, da vittima a denunciante, alcune giovani donne, molto inserite socialmente e culturalmente avvantaggiate, spiegano perché non abbiano denunciato gli uomini che le hanno abusate, quali i motivi che le hanno spinte al silenzio.

Annalisa, 32/ 44 anni

Non ero una sprovveduta eppure è successo. Si chiamava R., non scorderò mai il suo nome né il suo volto. Era il compagno della mia migliore amica, che era partita per lavoro lasciandolo ad occuparsi del trasloco della loro casa. Entrambi mi avevano chiesto di aiutarli a scegliere alcuni arredi. Una partecipazione attiva fra amici ed io mi occupavo di ristrutturazioni. Per questo andammo al nuovo appartamento in via Carrara, vicino a piazza del Popolo, per prendere le misure, scarabocchiando fogli di carta e infine ci concedemmo un attimo di pausa su un divano provvisorio.
Non ricordo bene gli attimi prima dell’aggressione. Mi stava troppo vicino. Ci fu un battibecco in cui cercai di chiarire che quel gioco non mi piaceva. Più mi negavo più lui diventava forte e violento. A pressione il corpo rispondeva con una pressione uguale e contraria e più lui mi bloccava più facevo resistenza. Non ragionava, sudava, cominciò a chiedermi di stare ferma. Ho cercato di farlo ragionare ed approfittai di un momento di esitazione per alzarmi e cercare di chiudermi nel bagno che però non aveva chiave. Spalancò la porta, mi prese per i capelli, mi trascinò nuovamente sul divano rompendomi la lampo dei pantaloni, tirandoli verso il basso. Nella mia mente s’accavallavano pensieri veloci. Mi teneva ferme le gambe con le sue, mi puntò il gomito al collo e spingeva, spingeva, ed io non respiravo, sarei morta, capivo che sarei morta ed io non volevo morire per colpa di quell’imbecille privo di controllo. Decisi in un lampo che non sarei morta per la sua presunzione, per la sua prepotenza. E gli dissi che avrei accettato di fare sesso se lui si fosse calmato.
Mentre il suo sudore colava su di me, mi sembrò che assumesse l’aria del pavone quando allarga la sua meravigliosa coda, solo che lui non aveva altro che un pene da mostrare. Mi prese e mi riprese chiedendomi se mi piaceva. Non so se me ne vergogno ma risposi di si, avevo paura di suscitare ancora violenza. Cosi l’incubo finì nel più idiota e orrendo dei modi. Mi alzai inciampando sui pantaloni che non ritrovavo, piangevo mentre lui mi seguiva ammansito chiedendomi “ma quanto ti è piaciuto?”.
Avrei voluto raccontare alla mia amica come era spregevole la persona che le stava accanto ma non me la sono sentita. Ho solo cercato di dimenticare e di non vederli più. Invece il destino ha fatto in modo che c’incontrassimo di nuovo, recentemente, ad un evento pubblico.
“Guarda chi ti ho portato!” mi ha detto l’amica mentre mi veniva incontro insieme ad un uomo un po’ anziano , “te lo ricordi?”.
E certo che lo ricordavo. Non l’ho mai dimenticato. Avrei voluto urlare in mezzo a tutti che una sera di tanti anni prima mi aveva stuprata, senza dignità, senza pietà. Che stava per soffocarmi. Invece lui stava li, vicino a lei e davanti a me, con un sorriso ammiccante, sembrava ancora sbavare, mi guardava dritto negli occhi perché mi ricordassi ogni attimo del suo potere. “Certo, come avrei potuto dimenticarlo!” ho quasi urlato. Ero in un sala conferenze, potevo prendere la parola, ero una persona stimata ma ero anche una delle tante vittime di violenza che aveva taciuto. Sistematicamente mi sono domandata, mi domando, se oggi avrei agito diversamente ma mi sono detta: a che sarebbe servito? Per l’opinione pubblica altro non rappresentava che un signore distinto con posizione e riconoscibilità, io allora una giovane ragazza in cerca di un lavoro stabile. Sarei stata creduta o sarei passata per una mitomane? La mia parola contro la sua. Tutto è rimasto come prima. Lui, la mia amica, io e il Mondo. Però oggi, che te ne parlo con dolore e vergogna, sento che anche avere modo di raccontare, di mettere a disposizione di altre questa esperienza, serva a sentire che “non sono l’unica, non sono sola” e che può capitare ad ognuna e non siamo noi le “sbagliate”, che dobbiamo lottare insieme. Anche se oggi, che sono una donna con una carriera affermata, una famiglia, non trovo il coraggio di uscire dall’anonimato. Ho cercato modi e luoghi per combattere perché non dobbiamo accettare che queste forme di violenza si perpetuino nei nuovi orizzonti del futuro, non dobbiamo farci l’abitudine.

Laura, 32/52 anni

Mi ero da poco separata da mio marito con grande dolore. Sono rimasta sola a crescere una bambina piccola. Avevo un lavoro di pubbliche relazioni, una carriera in ascesa. Dovevo contattare una persona importante e da quell’incontro forse si sarebbero aperte nuove strade e nuovi guadagni.
Mi presentai all’ora fissata nella hall dell’albergo con la cartella degli appunti ma il portiere mi disse che stava male e mi pregava di salire per portargli i documenti.
Era un fare insolito ma di cose strane ne erano capitate e tale la considerai, tanto più che il portiere me lo stava proponendo come il più normale dei comportamenti.
Bussai, entrai. Mi accolse steso nel letto e mi indicò con la mano una poltrona davanti a lui. Tirai fuori il materiale, che volle verificare da vicino e mentre mi accingevo a porgergli i fogli mi prese una mano e la spinse sotto il lenzuolo. Sconcertata non seppi dire una parola e mentre mi avviavo alla porta, lui balbettò delle scuse chiedendomi di perdonarlo. Cercai, non riuscendoci, di catalogare quella violenza come un incidente, di dimenticare quella stanza in penombra, quell’odore di chiuso, quell’uomo eccitato.
Nei giorni a seguire le cose volgevano al meglio e la società per cui lavoravo mi fissò un altro appuntamento con lui e non seppi sottrarmi né raccontare quanto era successo. Così andai nello studio vicino al Pantheon, parlammo di lavoro per circa un’ora poi apparve una segretaria chiedendomi se gradissi da bere ma al mio diniego i due scomparvero e riapparvero poco dopo entrambi nudi, in pose inequivocabili chiedendomi di unirmi a loro. Un ricatto psicologico ha lo stesso impatto violento di una violenza fisica ma trovai la forza di dire che non ero interessata a quel tipo di incontri mentre cercavo nel frattempo ritrovare la calma e la compostezza per radunare gli appunti e scappare. Mi chiedevo cosa sarebbe successo dopo, se avessi dovuto denunciarlo ai miei capi o se non mi sentissi abbastanza forte per gestire quella situazione senza perderne i vantaggi. Optai per quest’ultima. Mandando in porto quell’operazione avrei guadagnato abbastanza per assicurarmi la baby sitter di cui avevo un disperato bisogno, magari comprarmi qualcosa. E alla realizzazione di tutto ciò mancava solo la firma di quell’uomo.
E arrivò quel giorno. Mi venne incontro con fare da grande manager, che inciampava su quella “cosetta” che ero io, scusandosi a mezza bocca per la volta precedente ma che non pensava che io fossi una donna così provinciale, forse non mi relazionavo con uomini d’affari e si sa che non si vive solo di lavoro.
Lo guardavo con disprezzo come fosse stato contemporaneamente il mio schiavo e il mio padrone. Da lui dipendeva il mio futuro prossimo. Eppure ero indipendente, ero stimata, avevo i mie affetti e perché mai in quel momento mi sentivo debole e indifesa, soprattutto inadeguata. Non mi vergognavo per la situazione ma per me, perché non sapevo reagire e ad un certo punto l’ho pregato di firmare. Gliel’ho chiesto come se la mia vita dipendesse da lui e solo in quel momento mi ha sorriso, mi ha preso la mano e mi ha chiesto il numero di telefono. Non ho avuto neanche il coraggio di rifiutare e gliel’ho dato, volutamente sbagliato. Mi è capitato in seguito d’incontralo ed è terribile come la sua presenza mi annienti e mi faccia sentire come il “nulla”, come se la violenza si ripresentasse ogni volta. Perché raccontarlo dunque? Non serve a nessuna mentre non fa altro che rinnovare il mio malessere.

Ilda G. 20/22 anni

Io faccio la commessa in un centro commerciale. C’è stato un momento in cui ho pensato che avrei potuto cambiare la vita raggiungendo il successo anche se non sono particolarmente istruita. La mia vera ambizione è di entrare nel mondo dello spettacolo e se viene la mia occasione non me la lascio sfuggire.
L’ho sperato fortemente quando una ragazza, che lavorava in un altro stand, mi ha detto che uno che lei conosceva, un famoso fotografo di moda e cinema, mi aveva notato e che mi avrebbe volentieri fatto un book. Ho pensato ad uno scherzo ma non avevo niente da perdere a provare e mi sono presentata al parcheggio all’ora stabilita.
Quell’uomo aveva un aspetto come dire? “cinematografico” . Asseriva di avere lavorato per alcuni attori importanti che, anche se non erano della mia generazione, avevo sentito nominare. Mi fece vedere il book di una ragazza che era diventata modella, girava il mondo e guadagnava tanto. Il mio sogno!
Non ho mai criticato queste ragazze perché se l’unica ricchezza di cui sei in possesso è ciò che si vede, va bene usarlo, come una laurea. Mino, o come si chiamava il fotografo, aveva uno studio in una strada poco trafficata sulla via Cassia, tra l’Ospedale S.Andrea e il centro urbano, al primo piano di una villetta chiaramente disabitata.
Mi ha messo a mio agio mentre preparava il set. Alla parete aveva provveduto a mettere un grande telo nero attorno al quale erano posizionati i fari .
Mentre io mi giravo e rigiravo, come lui chiedeva, provavo l’emozione di un set, di sentirmi ammirata, mi tolse prima la sciarpa poi il maglione (che non faceva risaltare il profilo), continuando a parlare sommessamente, rassicurante. Chiedevo dove sarebbero state pubblicate quelle foto, su quali riviste, per quale pubblico ma senza ricevere altro che indicazioni vaghe. Ad un certo punto mi disse che non rispondevo bene all’obiettivo, ero troppo rigida e non mi abbandonavo alle pose. Mi vergognai tanto da rendermi disponibile a ricominciare da capo. Mi disse che potevo riposare, mi offrì un tè per riscaldarmi e mi chiese quanto zucchero volessi. Fatto sta che mano a mano che il tempo passava sentivo di perdere lucidità e controllo. Riuscì a spogliarmi, a farmi assumere pose equivoche, a ridere e scherzare, a gioire di tutto ciò. Per un attimo solo ricordai un mio complesso, una voglia all’inguine. Che lui mise in risalto come se fosse un marchio di fabbrica. Capivo che non stavo assumendo pose artistiche ma piuttosto volgari ed oscene. E più mi faceva bere e più mi piaceva, riflessa nello specchio mi vedevo sguaiata ma non sapevo contenermi. La cosa andò avanti fino al momento in cui mi ritrovai distesa sul pavimento con lui sopra di me. Credo che mi abbia drogata, credo che mi abbia violentata, credo che quelle foto siano andate ad aumentare il circolo della pornografia. Credo che arrivò altra gente. Credo che facessi cose ignobili. Credo ma non ne sono sicura perché la mattina successiva mi ritrovai nel mio letto senza ricordare assolutamente niente. Come ero arrivata a casa? Chi mi ci aveva portato? Chi c’era quella sera oltre quell’uomo? Ho avuto giorni e giorni di buio nella mia testa, un buio che ancora oggi mi tormenta e che mi ha impedito di sporgere denuncia allora perché pensavo che la colpa fosse mia. Un vuoto nella mia vita che non riesco a riempire, che ogni sera prima di addormentarmi cerco di ricostruire, che è mio ma non mi appartiene, ha la mia immagine ma mi è sconosciuto. Perché non ho denunciato? Cos c’era da denunciare visto che me l’ero cercata? Come posso dimostrare oggi quello che accadde allora? Perché io ho accettato di fare un servizio fotografico e non di essere ridotta ad un corpo su cui infierire, questa si è violenza.

 pubblicato su DolsMagazine