La morte chiude ogni pratica?

da | Ott 26, 2010 | Editoriali

USA: Teresa Lewis, 41 anni, americana della Virginia, condannata a morte per aver istigato il suo amante ad uccidere suo marito ed il figliastro per impossessarsi dei soldi dell’assicurazione.
E’ stata giustiziata il 24 settembre.
Iran: Sakineh Mohammadi Ashtani, 43 anni, iraniana, condannata a morte per lapidazione, accusata di adulterio e istigazione all’omicidio del marito.
Esecuzione temporaneamente rinviata.  

In difesa di Sakineh, si è mossa una forte pressione internazionale, perfino capi di Stato.

Della Lewis nessuno ne sapeva niente o quasi e in sua difesa non si è mossa che la “solita”, scarsa opinione locale.

L’America si è trovata in “imbarazzo”, quando il presidente iraniano Ahmadinejad ha ironizzato sul silenzio della stampa occidentale sul caso Lewis, opponendolo al clamore che la condanna alla pena di morte dell’iraniana ha invece suscitato. Il presidente iraniano ha definito, quelle internazionali, posizioni di “due pesi e due misure”. 

Sul diritto da parte delle istituzioni preposte al rispetto della giustizia di condannare un cittadino alla pena di morte, esiste da lunghissimo tempo un dibattito che ha diviso le coscienze in due fazioni: una contraria, che ne chiede l’abolizione in nome dei diritti umani; l’altra,  che la ritiene un deterrente al reiterarsi della colpa e punizione esemplare.

In seguito alle varie prese di posizione, si sono avviate azioni all’interno dei vari stati, nelle assemblee internazionali e sulla stampa; in  molti stati la pena capitale non è che un ricordo, in altri invece essa permane e viene eseguita attraverso modalità che nel mondo cosiddetto moderno e progressista appaiono quantomeno disumane. 

La condanna a morte di Sakineh, tramite lapidazione, ha suscitato profonda indignazione per vari motivi. Innanzi tutto a noi occidentali, e comunque agli stati meno conservatori, pare eccesivo che un adulterio determini una colpa così grave solo se commesso da una donna. Negli stessi luoghi dove l’uomo la fa da padrone dentro e fuori la famiglia; dove non si può tollerare che una donna possa desiderare di porre termine ad un rapporto sbagliato, certo questo appare intollerabile. Ma se l’adulterio è considerato così grave, perché mai i mariti adulteri hanno diritto non solo a compierlo ma a restare del tutto impuniti?. Infine la lapidazione non è che l’ultimo, orribile, tragico segno di disprezzo nei confronti della donna in quanto tale. Morire come animale, interrata e indifesa, colpita da pietre e da insulti finché morte non sopraggiunga.

Sono più accettabili le tre iniezioni letali che hanno spento la vita della Lewis?

No, certamente. E comunque nell’orrore dei paragoni, il somministrare una dose di anestetico prima dell’iniezione letale, considera un velo sottile e impolverato di pietas umana.

Più fortunata chi è morta così o chi è rimasta in attesa di una condanna sospesa ma non ritirata?

Non ci sono risposte a questi incredibili interrogativi.

E ci spaventa anche che s’ironizzi sulle due vicende perché temiamo che, dopo l’ironia, si possa eludere la sospensione della sentenza iraniana. 

Che le regole degli stati siano una necessità sociale e politica non vi è dubbio, ma la speranza che la modernizzazione ed il progresso sociale portassero verso il benessere e la giustizia, la civiltà individuale e la democratica partecipazione, paiono ancora obiettivi da raggiungere nella loro completezza.

Resta la coscienza, l’amarezza   e la consapevolezza di attraversare, nella nostra breve vita, un mondo ancora pieno di buchi neri, di interrogativi senza spiegazioni plausibili, d’ingiustizie senza motivo accettabile; tutte pratiche che la morte di una donna, forse di due, o di tutte le altre/altri che subiscono condanne inferte da altri individui, a loro volta colpevoli di indurla,  possono chiudere la pratica di un’esistenza individuale ma non quella delle coscienze.

Dols, ottobre 2010